Ha appeso il Domani al chiodo. L'ingegnere, tessera numero uno del Pd, col suo Domani – quotidiano rosso fuoco – agognava la spallata alle destre. Se l'è lussata. L'ha fondata in pandemia, per strada neanche il fantasma di Riccardo Magi e invece no, all'orizzonte lui già scorgeva le camicie nere. Sui balconi, all'ora del Campari, la parola d'ordine trasvolava e accendeva i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano. Altro che i pirla che si esibivano col piffero. Serviva un nuovo giornale per fermare i nuovi camerati. Sì, col piffero! Cinque anni dopo non solo i fascistacci hanno ripreso il potere – manca solo il sabato di ginnastica obbligatoria – ma Carlo De Benedetti abbandona il Domani. L'eschimese resta in redazione. Lui no. L'ingegnere voleva spingersi più a sinistra di Repubblica, ceduta dai figli a John Elkann, rubarle un certo numero di copie e guidare la Resistenza. Il progetto, che pur prosegue nelle pubblicazioni, s'è fermato in montagna: Domani non confronta nemmeno nel conteggio mensile delle copie effettuate da Audipress, in vero l'intero settore non gode di ottima salute ma il Domani è un paziente a sé.
De Benedetti spiega che il suo proposito, iniziata l'avventura, era quello da lasciare con i conti a posto, e però le perdite sfiorano il milione. Il commiato è stato affidato a Primaonline.it. «La mia idea da sempre era che, quando il giornale fosse stato in equilibrio economico, l'avrei passato a una fondazione. Oggi, cogliendo l'occasione del quinto compleanno, rispetto quella promessa. Avrei potuto cambiare opinione», sottolinea, «visto che il mondo è radicalmente mutato, ma sono rimasto fedele a quell'idea. Lo dissi nel 2020 e lo faccio oggi. È una decisione coerente e mi fa piacere di poterla prendere».
De Benedetti, dice, lascia a una fondazione che riceverà una dote iniziale di 4 milioni e spetterà a questa proseguire il progetto editoriale. «Assieme a Campo Dall'Orto», presidente e amministratore delegato, «troveremo persone di alto profilo, in sintonia con la vocazione editoriale del giornale: progressiste, indipendenti, riformiste», annuncia l'ingegnere. «La previsione è di azzerare le perdite grazie alla spinta sul digitale con una politica mirata di abbonamenti basata soprattutto sulle newsletter verticali», e lo auguriamo alla redazione. Poi De Benedetti annuncia: «Io non scappo». Sembra che voglia mettere le mani avanti. «Un giorno morirò», e qui le mani scendono, «ma questo è un altro discorso». È il momento amarcord: «Sono nato a Torino dove dopo l'esilio in Svizzera per sfuggire alle leggi razziali ho vissuto la stagione straordinaria della ricostruzione. A Torino c'era il mondo del Partito d'Azione, con figure come Galante Garrone e Bobbio, intellettuali che avevano una visione chiara dei diritti. Lì mi sono formato e non ho mai cambiato mentalità in novant'anni. Ho coltivato la mia indipendenza e le mie idee di libertà».
Attenzione però, perché il De Benedetti tiene a evidenziare che il Domani è nato come «voce progressista, non legata a partiti né a interessi personali». Capito? Due anni fa l'ingegnere, anfitrione della festa del suo giornale, era sul palco di fianco a un'elegantissima Elly Schlein la quale incassata in una poltrona in pelle infilava di frequentare le dita dentro le scarpe sportive bianche che spuntavano dai pantaloni a zampa d'elefante. «Sono in gran parte degli ignoranti», aveva sentenziato l'ing. parlando degli esponenti delle destre, «delle persone che non capiscono neanche le cose che dicono. Quella statuetta del nostro primo ministro, quando esce da una riunione a Bruxelles, dice che è soddisfatta. È una cosa talmente autolesionista», argomentava, «vuol dire che basta darle niente che è soddisfatta. Questo dimostra demenza. Io uso la parola “demenza”». Oltre a quelle “indipendenza” e “libertà”, si capisce.