Con buona pace di Greta Thunberg, che non a caso ha corretto frettolosamente il tiro dedicandosi ad altre battaglie, il mondo sta cambiando. Tra guerre, crisi industriali e conti che non tornano i nobili ideali ambientalisti non sembrano più in cima alla lista delle proprità. Anzi, i colpi ben assestati dalla realtà dei fatti li stanno pian piano sgretolando. L’inversione di marcia sta arrivando anche nel mondo della finanza. E in particolare negli Etf (Exchange Traded Fund, fondi di investimento che replicano indici azionari). Dove la fuga dai prodotti green non è provocata da un cambio di ideologia ma, banalmente, dalla constatazione che non funzionano più. Ovvero non portano rendimenti.
Le performance della finanza eticamente sostenibile, per anni sbandierate come un grande valore aggiunto per chi voleva fare affari con la coscienza pulita, non tengono più il passo. Uno studio condotto dal comparatore JustEtf per MF-Milano Finanza mostra che, mettendo a confronto due fondi-indice sulle azioni globali, uno nella versione generalista e uno filtrato in base a parametri di sostenibilità, i rendimenti evidenziano il dominio incontrastato per i comparti senza filtri Esg. Risultato: solo nel secondo trimestre di quest’anno le società di gestione del risparmio hanno tolto l’acronimo buonista (Environmental, Social, and Governance) da ben 382 comparti.
Ecco i numeri. Sull’orizzonte di un anno, spiega MF, l’Msci World classico ha più che doppiato la versione sostenibile (+10,8% contro +4,1%) ma anche se si allarga l’orizzonte a tre e cinque anni la sovraperformance dell’Etf generalista è notevole: +43% contro +28,5% nel primo caso, +87% contro +66% nel secondo. Tutta colpa di Trump che ce l’ha con l’ambiente, direte voi. E in parte potreste avere ragione. Non avere più dalla propria parte chi amministra la più grande potenza economica del pianeta non aiuta certo a far salire le quotazioni. Ma i problemi principali sono altri. Uno riguarda le truffe dei “buoni”. A provocare l’ondata di rigetto è stato il cosiddetto greenwashing, ovvero di applicare ai prodotti finanziari certificazioni di sostenibilità che JustEtf definisce con garbo «etichette esagerate rispetto alla sostanza», ma che sono delle vere e proprie prese per i fondelli di chi investe il proprio denaro. «Regolatori di Usa, Regno Unito ed Europa hanno alzato l’asticella su nomi e trasparenza per ridurre gli abusi. Molti risparmiatori hanno, di conseguenza, scoperto che Esg non significa automaticamente verde o a impatto zero», ricorda il comparatore JustEtf.
L’altro fattore di realtà che si è scontrato con la moda verde sono i conflitti in atto. Di fronte alla necessità di aumentare le capacità difensive dell’Occidente, i titoli delle aziende del comparto hanno ovviamente scalato i listini, lasciando a bocca asciutta chi ha preferito non investire nel settore delle armi. Il mix di cause ha innescato la grande fuga. Secondo i dati di JustEtf gli asset gestiti da fondi-indice Esg sono cresciuti da poco più di 87 miliardi di euro a fine agosto 2020 a quasi 350 miliardi a inizio 2025. Quest’anno il cambio di rotta. La corsa si è interrotta è il patrimonio è sceso ad agosto di oltre il 7%, attestandosi a 324 miliardi. Anche la nascita di nuovi Etf Esg procede col freno a mano tirato. Oggi sul mercato ci sono 700 prodotti che replicano gli indici azionari sostenibili disponibili per gli investitori italiani. Più di 450 sono stati lanciati dopo il 2020.
Dopo il picco di 173 debutti nel 2022 e dopo cinque anni consecutivi con almeno 100 nuove quotazioni, nei primi otto mesi di quest’anno ne sono sbarcati sul mercato solo 44: trend che, se confermato, riporterebbe l’industria ai numeri del 2016-17. Si torna indietro. O, forse, si va avanti.