Il mercato secondario dei titoli di Stato ieri non è andato bene. Le quotazioni dei principali bond sovrani dell’eurozona sono arretrate con un conseguente aumento dei rendimenti. Il rendimento del Btp decennale, scadenza primo ottobre 2035 è indicato al closing al 3,47% (era il 3,45% a inizio seduta) mentre l'Oat francese rende il 3,52% e il Bonos spagnolo di riferimento il 3,24 per cento. Lo spread tra Italia e Germania, però, con i Bund saliti al 2,76% saliti a è rimasto inchiodato al suo record di 70 punti, ai minimi dal 2009. Ma c’è anche un altro dato che gli analisti suggeriscono di tenere d’occhio, quello dello spread tra i titoli di Stato a 2 anni, riferimento molto usato per gli investimenti a breve termine, qui il differenziale Italia-Germania si è ormai assottigliato trai 15 e i 18 punti base. Un’inezia. Che ci importa di questi numerini, direte voi. Del resto, prima del 2011, quando schizzò oltre i 500 punti e provocò la caduta del governo di Silvio Berlusconi lo spread neanche sapevamo cosa fosse.
Ecco, ripensiamo un attimo a quegli anni. Chi salvò l’euro col suo celeberrimo “whatever it takes”? Ebbene, quando super Mario Draghi si è piazzato sulla poltrona di Palazzo Chigi, tra l’inizio del 2021 e la fine del 2022, lo spread se n’è bellamente fregato del curriculum e dell’autorevolezza del nostro presidente del Consiglio, continuando a veleggiare sui 250 punti. Circa la metà del livello che aveva fatto deflagrare il Paese come una bomba atomica. Beh, nello stesso periodo lo spread tra i titoli decennali francesi Oat e i Bund viaggiava sui 50 punti base. Volete sapere a quanto ha chiuso ieri? Oltre i 75 punti.
Peggio del nostro. Ma a Parigi le cose vanno male, lo sappiamo. E neanche in Germania c’è troppa aria di festa. Allora allarghiamo il perimetro e vediamo cosa è successo ai rendimenti dei titoli dall’inizio dell’anno, ricordando sempre che più sono alti e meno sono considerati affidabili. Quelli italiani sono scesi di circa 9 punti, in controtendenza con quelli spagnoli (+15), portoghesi (+23), tedeschi (+37) e francesi (+28).
La domanda resta la stessa: sono così importanti questi numeri? Non è più importante il livello di occupazione, la crescita o la produzione industriale? Quello che non è chiaro è che tutti questi fondamentali indicatori dipendono in qualche modo da quei numeri. Ottenere le promozioni dalle agenzie di rating e avere i rendimenti dei bond sovrani più bassi non serve a vincere una gara o ad appuntarsi medaglie sul petto. L’andamento dei titoli di Stato misura la credibilità del Paese, sposta i soldi degli investitori stranieri e, udite udite, orienta in maniera diretta il costo del credito. Dovete prendere il mutuo per acquistare una casa o fare un prestito per l’auto nuova? Ecco, se lo spread con la Germania si riduce significa che gli oneri del finanziamento a Roma e a Berlino diventano più simili. E lo stesso, ovviamente, vale per le imprese, che stanno finalmente provando l’emozione di poter competere con i concorrenti europei ad armi più o meno pari, raccogliendo liquidità sul mercato sborsando circa lo stesso denaro di quanto fanno gli altri. Come ha spiegato qualche giorno fa l’Ocse, ignorata dai più, «le condizioni di indebitamento più favorevoli hanno contribuito a una maggiore crescita del credito, con l'indebitamento delle imprese in aumento nel corso dell'anno fino alla metà del 2025, per la prima volta in oltre due anni e mezzo». Il che significa più risorse per gli investimenti, più assunzioni, più salari e più crescita del Pil». Quei numerini, piaccia o no, fanno la differenza.