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Per ridare forza al Paese bisogna riportare in pista il capitalismo famigliare

Bene sarebbe che la maggior associazione datoriale italiana promuovesse un percorso mirato a riportare in campo le attuali generazioni per riprendere il ruolo più di imprenditore e meno di finanziere
di Bruno Villois sabato 6 dicembre 2025

3' di lettura

L’allarme lanciato da Draghi all’Europa sul futuro, ormai sempre più prossimo, non scalda granché i vertici comunitari e tanto meno quelli dei singoli Stati. I ritardi nella crescita del prodotto interno lordo , che posizionano l’aerea euro fanalino di coda a livello mondiale delle economia evolute, o in via di evoluzione, dovrebbero costituire il primo riferimento per dare inizio ad una svolta che per realizzarsi appare sempre più collegata alla trasformazione in industria bellica, di una parte non certo irrilevante di quella che ha reso l’Europa una delle guide del globo. Da noi il tema bellico seppur molto presente, sia nel linguaggio politico che in quello dei media, resta più confinato alla problematiche della deindustrializzazione in corso, capeggiato dal settore automobile, a cui si associa sempre più quello della siderurgia. I ritardi di modernizzazione e innovazione tecnologica hanno pesato in misura extralarge sulla capacità produttiva, che si è tradotta in una competitività perdente, condizione che ha allontanato gli investimenti, limitando anche l’accesso al mercato dei capitali.

Ha ragione da vendere il presidente di Confindustria Orsini quando evidenzia che nei conti correnti degli italiani ci sono depositi per oltre 1,5 trilioni di euro e che le casse previdenziali integrative dispongono a loro volta di una raccolta che supera i 150 miliardi di euro. Basterebbe l’1,5% del totale per ingenerare a leva un movimento di innovazione tecnologica che potrebbe valere per l’economia italiana quanto l’intero Pnrr. Un perentorio invito a guardare ad un futuro sostenuto da una grande fase di modernizzazione ispirata dalla categorie economiche, sostenute da finanziamenti degli italiani sotto la regia del Governo, ma con il consenso dell’intera politica, in modo da poter garantire norme stabili e durature nel tempo a favore dello sviluppo.

La condivisione di quanto proposto da Orsini, non può che essere totale, seppur è bene rimarcare qualche distinguo. Il primo riguarda il capitalismo famigliare italiano che di massima ha abbandonato il rischio industriale, volgendosi alla finanza. Un capitalismo che è stato il primo riferimento del boom economico durato ben quasi mezzo secolo, da fine anni 50 a inizio attuale secolo. Un capitalismo che allora come fino ai tempi nostri non ha mai puntato sulla quotazione nei mercati finanziari regolamentati, ma ha sempre immesso proprie risorse finanziarie, assumendosi anche la guida industriale, e quindi l’intero rischio imprenditoriale, pur facendosi affiancare da manager di forte competenza. Giusto e opportuno mobilizzare una micro parte dei depositi e della raccolta del risparmio previdenziale a favore dell’industria e per farlo ottenere la garanzia della politica su tempi, durata e burocrazia di un piano industriale Paese, ma anche se si ottenesse appieno, mancherebbe il reingresso in campo del capitalismo famigliare, che dove lo è tuttora: farmaceutica, agroalimentare e industria meccanica di precisione e di nicchia, fa comprendere quanto questi settori siano in piena salute e scalino ogni anno posizioni internazionali, mantenendo però gli head quarter sul suolo italico. Bene sarebbe che la maggior associazione datoriale italiana, nelle cui fila compaiono ancora esponenti del capitalismo famigliare del secolo scorso, promuovesse un percorso mirato a riportare in campo le attuali generazioni per riprendere il ruolo più di imprenditore e meno di finanziere.

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