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Piangiamo se le Big Tech non investono da noi poi le facciamo scappare soffocandole di regole

Occhio: gli americani, dove non si vedono giungle inesplorate, ma mercati che prosperano con poche e ben precise regole, sono stufi della nostra puntigliosa gabbia legislativa
di Sandro Iacometti martedì 23 dicembre 2025

3' di lettura

Ci risiamo. Da una parte si invocano gli investimenti dei giganti americani del tech, ci si lamenta della nostra arretratezza sull’innovazione, si invidiano i ritmi di sviluppo di Usa ed Asia sul terreno dell’intelligenza artificiale e delle nuove tecnologie, dall’altra non si perde occasione per bastonare con cervellotici regolamenti e sofisticati cavilli da azzeccagarbugli chiunque osi mettere piede dalle nostre parti per fornire servizi ormai diventati essenziali e che noi non siamo capaci di mettere sul terreno.

L’ultimo schiaffo non arriva da Brxuelles, che alle big tech negli ultimi 20 anni ha comminato multe cumulate per circa 15 miliardi di euro, ma direttamente dall’Italia, dalla nostra autorità Antitrust, che ha pensato bene di non dover sfigurare rispetto ai continui sgambetti operati dalla sua omologa europea.

Il bersaglio questa volta è Apple, sanzionata per 98,635 milioni di euro per abuso di posizione dominante. Secondo il Garante del mercato italiano la società californiana ha violato la norma sul mercato della fornitura agli sviluppatori di piattaforme per la distribuzione online di app per utenti del sistema operativo iOS. Al termine di una complessa istruttoria, condotta anche in coordinamento con la Commissione europea, con altre Autorità nazionali della concorrenza e con il Garante per la Protezione dei Dati Personali, l'Agcm ha accertato «la restrittività - sotto il profilo concorrenziale - dell'App Tracking Transparency policy, ossia delle regole sulla privacy imposte da Apple, a partire da aprile 2021, nell'ambito del proprio sistema operativo mobile iOS, agli sviluppatori terzi di app distribuite tramite l'App Store». In particolare, «gli sviluppatori terzi sono obbligati ad acquisire uno specifico consenso per la raccolta e il collegamento dei dati a fini pubblicitari tramite una schermata imposta da Apple, il cosiddetto ATT prompt che, tuttavia, non risulta sufficiente a soddisfare i requisiti previsti dalla normativa in materia di privacy, costringendo quindi gli sviluppatori a duplicare la richiesta di consenso per lo stesso fine».

Ora, nel merito, sulla base delle nostre leggi, può anche avere ragione l’Antitrust. E con lei tutti quelli che appena si dà un colpo ai re del web e della tecnologia iniziano a fare il trenino di capodanno con cappellini e trombette. Detto questo, però, è un fatto che anche europeisti convinti come Mario Draghi considerano le nostre regole sul digitale un formidabile spaventapasseri per i colossi mondiali del settore. Siamo arrivati al punto che alcune innovazioni di ultima generazione non vengono rese operative sui dispositivi in uso nella Ue per paura delle sanzioni. Sono davvero così essenziali e inevitabili tutte queste protezioni fornite ai nostri utenti? O stiamo rischiando di fare la fine del green deal con l’automotive, che non ha fatto altro che spianare la strada al predominio asiatico, che delle nostre regolamentazioni se ne frega? I conti con la realtà vanno fatti, sempre. E la realtà ci dice che gli Americani, dove non si vedono giungle inesplorate, ma mercati che prosperano con poche e ben precise regole, sono stufi della nostra puntigliosa gabbia legislativa. Dopo la recente multa a X, festeggiata qui come il primo successo del Digital Services Act, le insofferenze sono state esplicite. E la Casa Bianca sta pensando di utilizzare la Sezione 301 del Trade Act del 1974, che prevede rappresaglie, tra cui i dazi, in caso di determinazione di comportamenti discriminatori, ingiustificati o dannosi da parte di nazioni estere. Ci conviene?

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