Dal dopo Covid, re dei metalli, l’oro, ha iniziato una cavalcata inimmaginabile, tanto da moltiplicare per quasi tre volte il suo valore e scatenare una parabola ascendente delle principali imprese minerarie di settore. Da bene rifugio per eccellenza è diventato bene speculativo, come solo le tecnologie quotate al Nasdaq han saputo fare, con la differenza che l’oro è un bene reale e commercializzabile in funzione di molteplici attività che lo utilizzano, oltre che primo status symbol in ogni dove, mentre le seconde, pur essendo espressione di beni materiali realizzati dalle aziende, restano immateriali.
Ogni nazione del globo, attraverso le singole banche centrali, possiede oro come riserva e ultimamente ad accapparrarselo con ingordigia sono i cinesi, seguiti dagli Usa. Meno attratti sono i Paesi arabi, tenuto conto che possiedono, con nessun sforzo, l’oro nero e il gas, prodotti che sono all’origine delle speculazioni finanziarie, essendo indispensabili per l’intera umanità.
Resta da domandarsi quali possono diventare le sorti dell’intero globo in presenza sempre meno di realizzazione dipendenti dal genio umano e sempre più da prodotti naturali, la cui estrazione è essenzialmente confinata in alcune aree geografiche o Paesi, ovvero chi ne ha le sfrutta appieno, e può diventare arbitro delle sorti di chi non la che, per averlo, paga prezzi incredibili. Parimenti la prima componente essenziale del nostro tempo è diventato il possesso e controllo dei dati di ogni persona, delle sue abitudini, stili di vita e disponibilità alla spesa. Non a caso i primi possessori dei dati sono le regine tecnologiche del Nasdaq, che pur svolgendo attività sostanzialmente diversificate, si interconnettono tra loro sui dati e chiudono il cerchio di un potere che appare effimero e invece è superiore a qualunque bene materiale, perché dai e con i dati si alimenta l’economia mondiale e gli indirizzi di spesa, consumi e forniture. Incredibilmente l’Europa , o meglio l’agglomerato europeo costituitosi per mantenere una leadership mondiale, ereditata da secoli e secoli, non ha saputo dar seguito alla nascita di imprese tecnologiche che proprio dai dati ottenevano la linfa vitale per poter governare i destini del globo.
Prima gli statunitensi, poi i cinesi, in compagnia seppur dissociata di altri paesi Asia-Pacifico e poi gli Indù, hanno agito e investito come non mai prima nell’evoluzione tecnologica mirata a somme di componenti che all’origine e termine avevano sempre di dati. Contestualmente la Comunità europea è rimasta al palo. Le prime 500 aziende quotate al Nasdaq hanno capitalizzazioni di Borsa superiori ai 100 miliardi di dollari, in Europa del settore tecnologico con almeno la stessa cifra sono 5, tutte tedesche. Improvvisamente l’ex governatore della Bce e premier italiano, Mario Draghi, s’è risvegliato dal torpore e ha lanciato l’allarme sull’Innovation Tecnology, facendo sobbalzare sulla sedia i 28 capi di stato, tra cui i 5 più importanti, senza peraltro arrivare a nulla. Ora, ogni minuto di ritardo negli investimenti, mentre gli altri galoppano - leggasi Cina, Stati Uniti, India - è una pietra miliare per essere emarginati dalle scelte per il nuovo orientamento mondiale, che ha e avrà nella tecnologia il suo primo protagonista decisore.