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Intrighi e lotte: il Pd ormai è come la Dc

Come ai tempi della Prima Repubblica, il governo cadrà non per colpa degli avversari ma degli alleati. Basta leggere le dichiarazioni di fuoco dei renziani...
di Andrea Tempestini martedì 31 dicembre 2013

4' di lettura

Diciamoci la verità: ormai il Pd è il degno erede  della Dc.  Non tanto per la linea politica ma per la dose di intrighi e lotte intestine che dividono il gruppo dirigente  del partito. Come ai bei tempi,  quando gli andreottiani pugnalavano Forlani sulla soglia del Quirinale e i motorei litigavano con i dorotei fino a provocare una crisi al buio. Perché una volta i governi mica cadevano quando l’opposizione si metteva di traverso.  Macché! A farli cascare erano gli alleati e, più spesso, i compagni di partito. Così, come allora e con la stessa ipocrisia di allora, Letta non è in bilico a causa delle bordate di Beppe Grillo o le accuse di Silvio Berlusconi. Il presidente del consiglio è precario in quanto il segretario del suo partito vuole il suo posto.  Per rendersene conto basta leggere le prime pagine de L’Unità, cioè  dell’organo ufficiale del Pd. Domenica: “Letta ricomincia a ballare”. Sottotitolo: “Il Pd avverte il premier: non basta solo un rimpasto. Faraone( cioè un renziano doc, ndr): Fatti troppi errori, o si cambia o si muore”. Ieri: “Renzi, ultimo avviso a Letta”. Sottotitolo: “ Il segretario del Pd: se si fanno marchette non si va avanti”. Capito? Il numero uno del Partito democratico dice a quello che fino a pochi mesi fa era il numero due dello stesso partito: preparati perché ti mando a casa! Carinerie tra compagni, proprio come ai tempi di Fanfani, Rumor, Piccoli e altri capi bastone della Dc.  Del resto Renzi viene da lì e Letta anche, dunque nel  Pd hanno portato le buone maniere democristiane.  Le stesse che nel corso della prima Repubblica hanno prodotto i baby pensionati e le leggi mancia a favore del sindacato. Perché i dc di una volta, come i pd di oggi, sono molto pignoli sulle questioni che riguardano i giochi di potere, le segreterie, le presidenze, gli organigrammi. Poi sul resto, cioè sulle decisioni che influiscono sui bilanci pubblici cioè sulla nostra vita, sono molto generosi. Come abbiamo dimostrato nei giorni scorsi, riportando i favori che il premier ha fatto ai compagni con il decreto Salva Roma e la notizia della nomina a direttore generale dell’agenzia giovani di un uomo assai vicino al sindaco di Firenze.  A riprova di quanto sosteniamo inoltre ci sono le vicende di questi giorni: una a conferma della lotta interna, l’altra dei pasticci e della doppiezza quando il Pd si occupa di denaro. Prendiamo il primo caso, quello scoppiato all’interno del partito subito dopo la nomina del nuovo tesoriere. Il cassiere di Renzi appena preso possesso del nuovo ufficio si è premurato di far sapere che il bilancio del Pd è un colabrodo. Nuovi assunti, consulenze, alberghi , rimborsi etc: le casse del partito sono vuote. Ovviamente la colpa ricade sui bersaniani, che vengono accusati di essersi mangiati tutti i soldi pubblici. Un’operazione che serve a far sapere che i renziani hanno le mani pulite, mentre chi c’era prima non si sa: come minimo sono spendaccioni. Un modo per marcare la distanza: noi siamo il nuovo, loro il vecchio. Ma anche  un modo per continuare la battaglia interna, fra la corrente dei rottama tori e quella dei rottamati.  All’ombra di una guerra di potere combattuta senza esclusione di colpi, utilizzando come si è visto anche quelli sotto la cintola, poi tutto prosegue esattamente come prima. Nomine, affari, pasticci. La prova? L’altra notizia di questi giorni, quella che riguarda il Monte dei Paschi di Siena, cioè la banca che gli uomini del Pd hanno portato vicina al fallimento. Per salvare il più antico istituto di credito all’epoca di Mario Monti il governo è dovuto intervenire con un prestito speciale, rimborsabile in un certo numero di anni. Una misura tampone cui avrebbero dovuto seguirne altre, non solo di risanamento ma anche di ricapitalizzazione della banca. In particolare il Monte avrebbe dovuto aprirsi a soci esterni, diluendo il controllo che la Fondazione Mps esercita sull’istituto. L’ente è il maggior azionista e anche il maggior responsabile del dissesto, perché essendo i suoi vertici di nomina politica invece di vigilare sulla gestione del l’istituto di credito hanno lasciato che trionfassero le logiche di partito. Oggi, per riportare alla normalità le cose e sottrarre il Monte alle influenze esterne, comprese quelle del Pd, ci vorrebbe che la Fondazione facesse un passo indietro, aprendo il capitale ad altri, cioè al mercato. Ma a Siena non vogliono mollare la presa, preferiscono tenere tutto in famiglia. Anzi: tutto nel partito.  Risultato: il banchiere chiamato a dar lustro alla banca, nonostante sia uomo che si è messo in fila alle primarie del Pd, minaccia le dimissioni, il titolo affonda in Borsa e le voci di una nazionalizzazione – cioè di un intervento dello stato a spese dei contribuenti – corrono.  Tutto in puro stile Dc-Pd:  loro litigano, noi paghiamo il conto. di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet

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