Non bisogna essere dei fini osservatori per comprendere come gli equilibri geopolitici in vigore dalla fine della Seconda Guerra mondiale siano oramai saltati. Lo stesso attacco di Hamas contro Israele si inquadra all’interno di una serie di sconvolgimenti avvenuti negli ultimi anni che mettono in discussione la cosiddetta Pax Americana: il ritorno nel 2021 dell’Afghanistan sotto il controllo dei talebani, l’invasione russa dell’Ucraina, quattro golpe anti-occidentali in Africa, guerre civili in Sudan e in Etiopia, l’incursione dell’Azerbaigian nel Nagorno-Karabakh, rinnovate tensioni nei Balcani, bombardamenti a tappeto su civili inermi in Siria, azioni militari turche contro le forze curde appoggiate dagli Usa. Last but not least, l’aumento delle tensioni nel Mar Cinese Meridionale tra le Filippine, sempre sostenute da Washington, e Pechino. Al suddetto scenario si aggiunge ora una nuova guerra in Medio Oriente di cui si sta cercando faticosamente di scongiurarne l’escalation. In quest’ottica lo scoppio della pandemia ha avuto un grande, paradossale, merito: quello di aver destato l’Occidente dal senso di falsa sicurezza frutto dell’eccessiva finanziarizzazione dell’economia, sfrenata delocalizzazione industriale e zelanti politiche di decarbonizzazione.
OPPORTUNITÀ REGALATE
Tre elementi, questi, che hanno indebolito strutturalmente le economie statunitense ed europea, decretandone il declino, e dunque offrendo a Paesi non democratici, come Russia, Cina e Iran, un’eccezionale opportunità per rivendicare nuovi spazi di influenza geostrategica. Tanto per fare un esempio, mentre infatti le politiche di Stati Uniti ed Europa degli ultimi anni sono sostanzialmente ruotate nell’escogitare improbabili criteri ESG (il cui effetto immediato è stato quello di aver alimentato la crisi energetica, creando così i presupposti dell’attuale processo di de-industrializzazione), Pechino dava il via a una capillare azione di colonizzazione mineraria in Africa e Asia nonché a un aumento della capacità di raffinazione di petrolio e metalli e produzione di semiconduttori. Secondo uno studio pubblicato dal Center for Strategic International Studies (CSIS), la Cina è il Paese che investe maggiormente in politica industriale (agevolazioni fiscali, sussidi, credito a tasso inferiore rispetto a quello di mercato): l’1,73% del Pila fronte del magro 0,39% del Pil degli Stati Uniti. Dall’analisi sui sussidi alle imprese cinesi emerge come i maggiori beneficiari dei sussidi siano le aziende di software, hardware, automobili, trasporti e semiconduttori. Non sorprende dunque se la quota Usa della produzione globale di semiconduttori sia dunque scesa dal 37% nel 1990 al 12% nel 2020, mentre la Cina è cresciuta al 15% nel 2020 con l’obiettivo di arrivare al 24% entro il 2030.