«L’Italia ci è sempre stata vicina, ricordo come ero accolto quando venivo da voi, mi sono sempre sentito a casa», Vladimir Putin gigioneggia con una studentessa milanese all’incontro all’Istituto degli Studi Internazionali di Mosca. All’indomani della fiaccolata di tuttala nostra politica contro di lui per la morte in carcere del suo oppositore, Aleksej Navalny, l’autocrate russo sembra farsi beffe del Bel Paese con la memoria corta. Già perché, prima dell’aggressione all’Ucraina, in Italia erano tanti i figli di Putin; anzi, iscriversi al club degli amici dello zar pareva obbligatorio per chiunque entrasse a Palazzo Chigi. Ovviamente il gioco nazionale è fare finta di no, rimuovere, e attaccare Salvini, dipingendolo come l’uomo di Mosca in Italia, per una frase invero infelice pronunciata ieri.
Il vicepremier ieri alla radio era partito bene: «La Lega è andata in piazza per chiedere chiarezza e la fine di tutti i conflitti. Tutte le fesserie sui nostri legami con la Russia sono state archiviate dai giudici». Ma su Navalny è scivolato. «Difficilmente riesco a sapere cosa accade in Italia, come posso giudicare quel che è accaduto dall’altra parte del mondo.
Bisogna fare chiarezza, ma devono farla i giudici e i medici, non noi». Sarebbe perfetto, non fosse che l’oppositore di Putin è morto in un gulag, neppure la madre riesce a vedere il suo corpo e sia i giudici sia i medici in Russia sono al servizio dello zar e sanno benissimo che, se non obbediscono o svelano verità sgradite al regime, finiscono come Navalny.
Ciò detto, Salvini, a differenza di tutti i predecessori di Draghi e Meloni a Palazzo Chigi, non ha mai avuto rapporti particolarmente stretti con il dittatore. Lo ha incontrato due volte: nel 2019, quando era al governo, pochi minuti insieme a Di Maio nella cena di gala offerta per Vladimir a Villa Madama, dopo che il russo aveva parlato di politica e affari con Mattarella e Conte; e nel 2014, a Milano, per mezz’ora, a margine di un vertice euroasiatico con Merkel e Hollande e al cui tavolo per l’Italia sedevano Renzi, premier, e la Mogherini, allora ministro degli Esteri. Occasioni dalle quali non è scaturito nulla. Se ora il leader leghista è più prudente degli altri politici italiani nell’attaccare Mosca, è probabilmente perché non vuole lasciare all’estrema sinistra e a M5S la discreta parte di elettori che vorrebbero si arrivasse a una soluzione del conflitto in Ucraina, dove presto si recherà la Meloni in visita, nonché forse perché ha registrato in anticipo rispetto ad altri un rallentamento dell’impegno anti-russo della Casa Bianca.
IL SUO VERO VOLTO
Oggi Putin si è rivelato peggiore di quanto si potesse immaginare anche solo un paio d’anni fa, perciò è stucchevole il gioco di quanti rinfacciano a Salvini e a Berlusconi un certo putinismo, volendo, per la proprietà transitiva che in politica non esiste, estenderlo a tutto il centrodestra e alla Meloni, che viceversa è la sola a non aver mai avuto rapporti con Mosca.
Tutti, a parte l’attuale premier, hanno avuto o cercato di avere buoni rapporti con Vladimir. Certo, subito il pensiero corre a Silvio Berlusconi, ai suoi soggiorni nella dacia in Crimea e al presidente russo ospite a Villa Certosa che sfreccia sulla macchinetta elettrica o che, ad Arcore, tira la pallina al cagnolino Dudu. Però è un fatto che la quota di gas importata dalla Russia si ridusse proprio quando al governo c’era il Cavaliere, tra il 2008 e il 2011, calando sotto il 20%. E fu con l’arrivo di Mario Monti che risalì. Il bocconiano governò poco più di un anno, ma bastò per arrivare al 25%, segno di una crescita a ritmi serrati della nostra dipendenza da Mosca, celebrato da un bilaterale a Sochi, nel quale il senatore a vita si dichiarò «in piena sintonia con Putin» ed esaltò le sue doti di «grande leadership».
Erano le premesse della grande genuflessione, officiata dal successore di Monti, Enrico Letta, unico leader occidentale che nel febbraio 2014, un mese prima dell’annessione della Crimea, si recò a Sochi per inaugurare le Olimpiadi Invernali, sfidando le critiche del suo Pd e delle associazioni gay. «Vado per esportare i valori della nostra Costituzione», si giustificò. Missione più fallimentare perfino del suo governo. Anche l’esportatore di principi regnò giusto un anno, ma fu quello chiave per sancire la nostra dipendenza da Mosca, con le importazioni di gas balzate al 45,3% in un amen. Davanti a una cifra così mostruosa, sembrano poca cosa perfino le 28 intese commerciali, con spiegamento di ministri, che Letta riuscì a siglare con la Russia, tra una chiacchierata sui diritti umani e l’altra.
La discontinuità di Matteo Renzi, un tornado nella politica italiana, toccò svariati ambiti, ma i suoi rapporti con Putin furono sereni quasi come quelli che aveva Letta. I livelli di dipendenza energetica si confermarono altissimi, con tendenza a crescere verso il record toccato da Paolo Gentiloni, premier per procura, che nel solco del suo dante causa arrivò a sfiorare il 50% di dipendenza energetica. Da presidente del Consiglio, il rottamatore si recò due volte a Mosca, siglando, parole sue, «accordi per oltre un miliardo», ma gli va riconosciuto di non aver mai piegato il capo davanti al dittatore, al punto da portare fiori sul ponte vicino al Cremlino dove in circostanze misteriose fu assassinato Boris Nemcov, già vicepremier di Elstin e fiero oppositore del regime. L’ex segretario Pd però fu tra i sostenitori dell’impegno russo nel Mediterraneo, in Libia e in Medio Oriente, dove dopo il fallimento della politica di Obama l’Occidente lasciò a Mosca campo libero per sgominare l’Isis. Renzi diceva di augurarsi che Putin ci aiutasse a normalizzare i rapporti con la Siria e l’Iran, oggi sotto il dominio di Mosca il primo e protettore e sponsor di Hamas contro Israele, gli Usa e la Ue il secondo.
Valla pena tornare su Gentiloni per ricordare come, da commissario Ue, dopo che da premier aveva esultato per «il ritorno della Russia nel Mediterraneo», parlò di «sconfitta militare disastrosa per Mosca in Ucraina». Da allora i suoi amici non lo fanno giocare neppure a Risiko.
Ma ancora peggio fece, da ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, rivelando di essersi fatto portavoce presso gli Stati Uniti delle ragioni di Putin, perché «la Russia vuole cooperare con Usa e Ue». D’altronde, per i compagni l’ex presidente ha sempre avuto un debole, specie in politica estera e quando sentiva odore di Kgb.
L’IRRIDUCIBILE CONTE
Il paglietta dei rapporti con lo zar fu però Giuseppe Conte, inutile quanto grottesco. La visita a Mosca con conseguente bacio della pantofola fu, nel 2018, uno dei suoi primi impegni. L’avvocato dichiarò che «le sanzioni a Mosca sono da superare», idea che per insolita coerenza non ha cambiato neppure oggi, quando va in giro a dire che «le sanzioni fanno più male all’Occidente che alla Russia». I giornali ricordano anche che il premier grillino fu tentato dal piazzare parte del nostro debito pubblico al fondo sovrano moscovita, mentre tutti noi rammentiamo la sua mossa anti-Covid: convocare medici di Putin in Italia per aiutarci contro l’empidemia. All’ex ufficiale del Kgb non parve vero: ce ne mandò subito 130, naturalmente medici militari, ma in molti sospettarono che il lavoro vero fosse il secondo. Comunque alla fine la Russia fu, dando per scontato che nessuno saprà mai cosa accadde davvero in Cina, la nazione con più morti per corona-virus rispetto alla popolazione. Si parla di 800mila ufficiali, ma è lecito salire.
Chiudiamo con Romano Prodi, che è democratico al di sopra di ogni sospetto, ma ha una inspiegabile passione per le dittature comuniste. Il professore stravede per Pechino ma apprezza anche Putin, che è una sua scommessa persa, ed è forse questo il solo punto che ha in comune con Berlusconi, con il quale però rivaleggiava nella gara a chi stesse più simpatico allo zar. «Unione Europea e Russia sono come caviale e vodka», sentenziò; e fu subito chiaro chi, fra lui e Putin, aveva mangiato il primo e bevuto la seconda.