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Misteri sovietici sulla fine di Hitler

Il dentista personale di Adolf riconobbe le tracce del suo paziente. Ma le due diverse modalità di suicidio, veleno e colpo alla testa, rendevano perplessi i sovietici
di Marco Patricelli sabato 3 maggio 2025

4' di lettura

Quattro anni di processo e 42 testimoni davanti al tribunale amministrativo di Berchtesgaden solo per stabilire l’ora in cui il 30 aprile 1945 Adolf Hitler tirò il grilletto della pistola sparandosi alla tempia nel bunker della cancelleria a Berlino. Quando era scampato a una quarantina di attentati progettati ed eseguiti, era sicuro che la provvidenza avesse steso su di lui la sua mano per consentirgli di portare a compimento la sua missione per la Germania; dopo aver messo il mondo a ferro e fuoco e portato il Reich alla rovina, di fronte al disastro totale, non trovò altra via d’uscita che suicidarsi dopo aver lasciato l’ordine di bruciare il suo cadavere. Avendo appreso il giorno prima quello che era accaduto a piazzale Loreto a Milano, non intendeva infatti lasciare le sue spoglie a Stalin.

La notizia della morte di Hitler giunse al Cremlino verso le 5 del I maggio. Erano trascorse circa tredici ore da quando il Führer era stato ritrovato morto su un divanetto assieme alla moglie Eva Braun, appena sposata e che aveva condiviso il destino deciso dal Il dittatore sovietico, dopo aver manifestato il proprio rammarico perché l’Armata Rossa non era riuscito a catturare vivo il suo nemico, pretendeva la conferma al di là di ogni dubbio. E la ottenne quattro giorni dopo attraverso tre testimoni catturati dal Servizio segreto militare (il generale Helmuth Weidling, il commodoro Hans-Erich Voss e il capo pilota Hans Baur) i quali sostenevano che il cadavere era stato dato alle fiamme nel giardino della cancelleria, così come quelli del ministro Joseph Goebbels e della moglie Magda. Ma Stalin voleva le prove. Il corpo di Hitler glielo trovarono subito gli agenti di un altro servizio segreto dipendente dal Commissariato del popolo per la sicurezza dello Stato, lo Smerš, in organico al 79° fucilieri della 3ª armata.

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Furono loro a ritirare fuori da un cratere di bomba i resti di Hitler e della Braun e di due cani, gettati lì proprio dai soldati sovietici convinti che quello che cercavano fosse all’interno del bunker e non nel giardino. Il 5 maggio lo Smerš recuperò in fretta e furia i cadaveri avvolgendoli nelle coperte e depositandoli in due casse per munizioni. Per avvalorare la scoperta venne subito interrogato un prigioniero da giorni nelle loro mani, lo sturmbannführer SS Wilhelm Monke, che era stato scoperto essere l’aiutante di campo di Hitler. Un verbale indirizzato al capo dei servizi segreti sovietici Lavrentij Berja confermava la prima ricostruzione dei fatti, mentre intanto una commissione di medici legali presieduta dal colonnello Faust Škaravskij eseguiva a Berlino l’8 maggio gli esami autoptici su undici corpi umani e su due carogne di cani.

Otto cadaveri appartenevano alla famiglia Goebbels, un altro al generale Krebs, anch’egli suicida, e i due restanti parevano essere quelli di Hitler e della moglie. Gli specialisti avevano riscontrato sia tracce di avvelenamento di cianuro di potassio sia di colpi d’arma da fuoco, e quindi furono cauti nelle conclusioni, tant’è che le stesse vennero inoltrate al Cremlino solo il 27. L’11 maggio il dentista personale del Führer e la sua assistente, Hugo Blaschke e Käthe Heuserman, in base alle radiografie avevano confermato che le impronte dentarie erano quelle dei due pazienti. Eppure le due diverse modalità di suicidio, avvelenamento e colpo alla testa, rendevano perplessi i sovietici. Berja era il più perplesso di tutti e quelle contraddizioni sulle cause contenute nelle analisi dei reperti eseguite a giugno lo spinsero a sottrarre due referti che avrebbero potuto instillare dubbi in Stalin, una volta giunti sul suo tavolo il 16.

Allo stesso modo non diede seguito a ulteriori interrogatori a Günsche e al gruppenführer SS Johann Rattenhuber, capo del Servizio di sicurezza di Hitler, subito dopo trasferiti a Mosca, così come in seguito il capo dello staff personale del Führer, l’SS Heinz Linge, e interrogati nella famigerata prigione della Lubjanka. I sovietici volevano sapere quando Hitler aveva deciso di uccidersi, come l’aveva fatto, chi aveva accertato che fosse morto, chi aveva sparso la benzina sul cadavere e chi aveva dato fuoco ai resti. A complicare le cose s’erano aggiunte a novembre le note inglesi e americane che parlavano decisamente di suicidio con arma da fuoco, e ora i servizi segreti occidentali volevano da Mosca i risultati delle loro indagini.

A opporsi stavolta non era stato Berja, ma il suo rivale a capo dello Smerš, Viktor Abakumov, il quale temeva potessero emergere le falle della sua ricostruzione. Ne derivò una nuova tornata di interrogatori a fine anno per tappare quelle falle, a partire proprio dal fatto se Hitler fosse davvero morto e non fosse riuscito invece ad allontanarsi da Berlino assediata, riparando in qualche Paese compiacente, come l’Argentina. Fu varata così nel 1946 l’Operazione Mito, mirata a precisare in ogni dettaglio quello che era o non era accaduto nel bunker della cancelleria il 30 aprile 1945, come pretendeva Berja dall’Nkvd, che agì senza minimamente coinvolgere gli altri servizi e in assoluta segretezza: un classico dello spionaggio stalinista.

Alla Lubjanka finì anche il sottufficiale SS e telefonista del bunker Rochus Misch, e i cinque testimoni diretti vennero spremuti incrociando le deposizioni, mentre nei campi di prigionia sovietici si dava la caccia a chiunque avesse prestato servizio nella cancelleria del Reich il 30 aprile, trovando solo due testimoni e trasferendo tutti al carcere della Butyrka, dove furono sottoposti a torture di ogni tipo e spiati in cella. Poi li portarono a Berlino, per un’ispezione al bunker e al cratere della sepoltura temporanea, dove vennero rinvenuti altri reperti.

Si concluse che Hitler si era sparato, e poiché lo Smerš si oppose non venne effettuata un’ulteriore autopsia sui resti per confermare la presenza di cianuro, e quindi sancire se la causa della morte fosse stata l’avvelenamento seguito dal colpo di grazia alla testa. La propaganda sovietica giocò su questi aspetti per alimentare leggende su Hitler, paventando negli anni che fosse vivo e sotto protezione degli occidentali e proiettando così il fantasma del Führer sulla guerra fredda.

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