Hotel di lusso, brindisi e cene in giardino. Nei giorni che hanno preceduto il conclave per eleggere Leone XIV, un gruppo di ricchi imprenditori americani, filantropi e attivisti conservatori si è riversato a Roma e nella Città del Vaticano per incontrare cardinali e uomini di Chiesa, racconta il magazine National Catholic Reporter. Il Novendiale – il periodo di lutto di nove giorni che segue la morte di un papa – ha coinciso con la “Settimana dell’America”, l’annuale evento di raccolta fondi a favore delle cause cattoliche organizzato dagli americani nella Città Eterna: un pellegrinaggio a San Pietro con le tasche piene. C’era il cardinale Timothy Dolan, potentissimo esponente della Chiesa americana, arcivescovo di New York, di orientamento conservatore, vicino a Donald Trump prima che il presidente si conciasse da Santo Padre sui social («Non è una cosa buona», è stato il commento).
La Papal Foundation, organizzazione americana che sostiene le iniziative del Papa nei Paesi in via di sviluppo, di cui Dolan è Presidente del Consiglio di amministrazione, ha annunciato in un sala dell’Hotel St. Regis di aver raccolto 14,7 milioni di dollari per borse di studio e aiuti umanitari urgenti. Ma «questa sala potrebbe raccogliere un miliardo di dollari per aiutare la Chiesa. A patto che abbiamo il papa giusto», ha sibilato un ospite.
Robert Prevost, il meno americano tra i cardinali americani, è quel papa? E, come si augurava Dolan, è una miscela degli ultimi tre? Con «le doti di Francesco, l’intensità intellettuale di Benedetto XVI e il coraggio di Giovanni Paolo II»? È uno nato nel sud di Chicago, ma non della Chicago di oggi, la minimalista roccaforte della resistenza al trumpismo dove Barak Obama, proprio nel South Side, sta per inaugurare un campus di otto ettari (tra auditorium e piste di atletica, ci sarà la biblioteca presidenziale dedicata a studiare gli anni alla Casa Bianca di Barack Obama). Né è della Chicago casa di un altro cardinale americano, l’ultraliberal Blase Cupich, l’arcivescovo che ignorò l’esortazione a negare la comunione a chi sostiene l’interruzione di gravidanza.
Prevost è della Chicago degli anni Sessanta, il quartier generale di Martin Luther King, l’epicentro del ’68 studentesco, la “windy city”, la città ventosa, ma anche “the city that works”, la città che lavora. Negli anni Ottanta, quando spuntano i Chicago Boys, motore ideologico del reaganesimo, Prevost se n’era già andato: laurea in matematica alla Villanova University, Pennsylvania. E poi via dagli Stati Uniti, gli rimane appiccicato il tifo per i Chicago Cubs e quell’impasto umano che è l’America, l’operaio con i denti consumati dal tabacco, il messicano (regolare) che sgrana il rosario in tasca, le madri che si preoccupano dei diritti riproduttivi e anche della figlia atleta cui toccava competere con persone trans.
Gli anni trascorsi in America latina, l’avranno certamente reso più accettabile al Collegio cardinalizio (gli addetti ai lavori hanno a lungo pensato che gli Stati Uniti, superpotenza mondiale, avessero un peso geopolitico più che sufficiente, senza dover assumere anche il controllo del papato), ma capisce l’America e può parlare a un Paese dove Trump è stato votato dal 58% dei cattolici (erano il 47% nel 2020 e il 50% nel 2016), percentuale maggiore di quella conquistata del 2020 dal cattolico bianco Joe Biden, il secondo presidente nella storia americana a essere fedele alla Chiesa di Roma, dopo John Fitzgerald Kennedy. Le chiese americane oggi sono affollate, e sempre di più, da giovani cattolici convertiti (stile J.D. Vance: anche lui agostiniano, reazionario, che fa proseliti anche nella Silicon Valley e contrario alla “svendita” del Vaticano al Partito comunista cinese), sempre più attratti dall’agenda della nuova destra resa popolare da Trump: politiche sociali che mettono la famiglia al primo posto con le priorità economiche dell’America.
Stephen P. White, direttore del Catholic Project, poco tempo fa ha paventato una sorta di «anglicizzazione» del cattolicesimo, una Chiesa nazionale indipendente dal Vaticano. Ma Prevost non è Blase Cupich di Chicago, nè Joseph Tobin di Newark, nè Robert McElroy di Washington, il trio di cardinali liberal ordinato da Papa Francesco. Ha una formazione in diritto canonico, è poliglotta (parla inglese, spagnolo, italiano, francese e portoghese e sa leggere il latino e il tedesco) ma non è loquace, rarissime le interviste e di basso profilo. È l’opposto di Donald Trump, rassicura i conservatori (ha indossato la mozzetta) e piace ai progressisti, fa recitare alla piazza l’Ave Maria e per questo forse è il papa giusto.