Nel pantano geopolitico del Medio Oriente, la parola "tregua" dovrebbe rappresentare una boccata d’ossigeno da respirare a pieni polmoni. Di fronte alla possibilità di un accordo provvisorio per sospendere il dolore e la violenza e imbastire un dialogo verso soluzioni più durature, non dovrebbero esistere troppi ma. Eppure, quando Hamas si ritrova davanti ad un accordo costruito con sforzo diplomatico, in primis dagli Usa, e accettato da Israele, la prima risposta è sempre no.
La proposta americana prevede un cessate il fuoco di 60 giorni, il rilascio progressivo di ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, l’ingresso sicuro e monitorato di aiuti umanitari, l’avvio di un percorso politico che possa evitare l’unica altra alternativa possibile: la guerra ad oltranza. Un piano che, in un altro contesto e con un’altra leadership, sarebbe stato valutato con serietà, per non dire con clemenza. Ma Hamas non è un attore razionale. Non lo è mai stato.
Rifiutare questa tregua significa dire ai civili di Gaza — stremati, feriti, affamati — che il loro calvario può continuare. Significa anteporre la propaganda al benessere collettivo, l’integralismo all’umanità. È l’ennesima conferma che Hamas non rappresenta i palestinesi: li usa e li sacrifica come carne da cannone in un conflitto che non vuole risolvere, ma alimentare. Incredibilmente però, a leggere i commenti e gli articoli di ieri di tutta una rosa di inviati, analisti ed editorialisti italiani che abitano nel multiverso, sembra quasi che a volere la guerra sia Israele, e che Hamas, dopo le violenze del 7 ottobre, dopo l’ostruzionismo diplomatico dei mesi scorsi e dopo 600 e passa giorni di cattività imposta agli ostaggi, sia ancora un soggetto politico da ascoltare e assecondare.
Ecco il titolo di Avvenire: «Israele: sì alla tregua, Hamas frena però non rompe». Come a dire: questi ragazzi sono un po' scapestrati, ma lasciamoli riflettere in pace. La Stampa pone l’accento sui «dubbi» dei terroristi, un aggettivo che, si badi bene, non compare mai. Come non compare l’ovvia implicazione secondo cui, mentre questi novelli Amleto ragionano (ma su che?!), la gente muoia. Il Fatto quotidiano la possibile tregua se l’è proprio persa dalla prima pagina. Un "buco", si dice in giornalistichese, ma assolutamente voluto. Perché così, derubricando la questione, si evita lesti di dover condannare l’ennesimo, vergognoso rimpiattino.
Meno saggia Repubblica, che sceglie in prima un occhiello a dir poco soft: «Possibile tregua a Gaza: sì di Israele, Hamas frena». E difatti, scorrendo le pagine interne, si capisce il motivo. Ad accompagnare il pezzo in apertura, c'è un catenaccio da brividi: «Sembra fatta, poi salta la clausola che vincola l’Idf a non riprendere la guerra». Ti pareva che il problema non fossero quei cattivoni dell’esercito israeliano che non accettano di mettere fiori nei cannoni.
Pochi, davvero pochi, ritraggono la melina di Hamas per ciò che è: una mossa tanto cinica quanto prevedibile. I miliziani hanno bisogno della guerra più di quanto il popolo palestinese abbia bisogno dell’acqua potabile. Hanno bisogno della distruzione per giustificare la propria esistenza, del martirio per cementare il proprio potere, della disperazione per impedire ogni germoglio di pace. Una tregua stabile metterebbe a nudo la loro incapacità di offrire un futuro diverso. Meglio dunque restare nel fango delle rovine, da eroi tragici e vendicativi. Ché tanto, qualcuno pronto ad incolpare Israele si trova sempre.