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Piccolotti, il diktat della piazza pro-Gaza: la sinistra chiede l'abiura agli israeliani

"Benvenuti gli israeliani anti-Netanyahu". L'ammissione della Piccolotti: solo gli israeliani di serie A sono degni di sedersi alla tavola dei Buoni e dei Giusti
di Giovanni Sallusti domenica 1 giugno 2025

2' di lettura

Non avremmo mai detto che il campo largo in kefiah, il trittico Pd schleinizzato-Cinque Stelle cadenti-rossoverdi assortiti fosse così di larghe vedute. Invece, pensate, alla grande adunata pro-Gaza di sabato 7 giugno con vista sul referendum (coincidenze della cronaca politica, non siate maliziosi) i compagni ti accettano anche se sei ebreo, perfino se sei cittadino israeliano.

C’è solo una postilla, in fondo, un classico della casa riadattato, un’eco vagamente stalinista, ma riabbellita con il finto candore del Politicamente Corretto: l’abiura.
L’ha spiegata con grazia in un’intervista a La Stampa l’onorevole Elisabetta Piccolotti, il cui virgolettato-chiave messo nel titolo suona: «Benvenuti gli israeliani anti-Netanyahu». Gli israeliani di serie A insomma, quindi degni di sedersi alla tavola dei Buoni e dei Giusti, che magari sanno perfino usare le posate. Non i puzzoni, gli israeliani di serie B, quegli ebrei che magari oggi stanno al fianco dello Stato ebraico, della reazione al pogrom bestiale di Hamas, del tentativo di riportare a casa altri ebrei martoriati nelle viscere di Gaza, quelli che stanno con i soldati dell’Idf e non con i barbari che piazzano arsenali e target militari sotto gli ospedali e di fianco alle scuole. Costoro, per essere degni di interloquire con l’onorevole Piccolotti e con le anime belle mute sulla politica (ma sarebbe meglio dire il crimine reiterato) degli scudi umani, devono preliminarmente scusarsi di sé, diluire la propria identità, capovolgere le proprie convinzioni.

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Soprattutto, dissociarsi dal governo “genocida”, perché ormai il marchio d’infamia linguistica non è più nemmeno oggetto di dibattito, è un’ovvietà dell’alfabeto pro-Pal, i governanti attuali dello Stato ebraico come le Ss di allora. «Mi sembra paradossale mettersi a discutere delle bandiere di fronte al genocidio in corso a Gaza», proclama la dispensatrice di paradossi Woke Piccolotti, per cui se qualcuno proprio vuole ostentare la bandiera con la stella di David (la bandiera dell’unica democrazia del Medio Oriente, pare) lo faccia con contrizione, e denunciando i crimini di cui è responsabile quel vessillo, che nella pubblicistica perbene ormai vale la svastica. In ogni caso, «ognuno è libero di venire come vuole, non diamo indicazioni sulle bandiere da portare o non portare. L’importante è venire con animo pacifista». Nobile parola, quest’ultima... anzi, no. La parola nobile è “pace” (quella che sta perseguendo l’amministrazione del vituperato Trump, en passant), “pacifismo” implica quasi sempre un’ideologia, cui chi partecipa deve aderire nell’“animo”.

Non vogliono nemmeno generiche dichiarazioni d’intenti, vogliono entrare nel foro interiore, vogliono stabilire cosa è accettabile e cosa non lo è al livello della coscienza. Se ti presenti “con animo pacifista”, cioè ultrafilopalestinese, mettendo tra parentesi qualsiasi specifica sulle responsabilità di Hamas, convinto che il governo Netanyahu sia una cricca di inveterati genocidi, allora hai diritto di parola.

Altrimenti, c’è qualcosa di guasto nell’intimo della coscienza, e bisogna lavorarci. È la logica del “patentino antifascista” recentemente rilanciata dalla sinistra milanese (una dichiarazione da sottoscrivere se si vuole esercitare il diritto costituzionale alla manifestazione del pensiero): una sorta di “patentino antisionista”, per dirla soft, finché possiamo.

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