Chi ci perde di più nel divorzio fra Donald Trump ed Elon Musk? Non è facile dirlo, ma sicuramente ci perde l’America. Soprattutto se vuole conservare una qualche sorta di leadership in un mondo ove nuove potenze si sono affacciate e giocano un ruolo importante e ove la Cina insidia sempre più da vicino il suo primato. I rapporti di forza fra superpotenze si misureranno infatti in futuro, ancor più che oggi, sulla potenza e sull’innovazione tecnologica, nonché sul potere economico che ne discende. In età moderna, l’Occidente ha dominato, anzi conquistato, il mondo grazie a questi due elementi, il cui impetuoso sviluppo è stato possibile in virtù della libertà d’impresa e di commercio, cioè della competizione fra imprenditori ed innovatori che un regime di libero mercato ha favorito. Le libertà civili, in primo luogo quella economica, sono state la chiave di volta che ha permesso al nostro mondo di distanziare le altre civiltà che rimaste statiche e non dinamiche come erano in precedenza. Ultimamente, nel periodo della cosiddetta “globalizzazione”, la Cina ha però conquistato posizioni sempre più importanti grazie all’affermarsi di un modello che è stato definito di “capitalismo politico”. In sostanza, il partito comunista al potere è riuscito a integrare in un sistema politico fortemente monocratico economia e politica, capitalismo e autoritarismo. Ciò è potuto avvenire perché la civiltà cinese, affondando le sue radici nel confucianesimo e in un’idea di armonia sociale, ha potuto centralizzare i poteri con facilità, neutralizzando e le spinte entropiche o individualistiche connesse ai processi di produzione della ricchezza capitalistica.
In questa situazione, gli Stati Uniti, per non perdere il primato globale che ancora conservano, hanno necessità di accentrare anche loro certi processi, provando a farlo in un regime di libertà. Impresa difficile, ma non impossibile se si riesce ad intrecciare una rete di relazioni virtuose fra stato e mondo imprenditoriale. Una collaborazione fra politica nazionale e big tech è perciò in questa fase assolutamente necessaria. La novità dell’attuale amministrazione americana è stata proprio la capacità, che deve riconoscersi a Trump, di aver individuato una base di collaborazione forte e tesa a ricondurre il mondo delle big tech nell’alveo dell’interesse nazionale (il che non è affatto scontato per imprese che operano in tutto il mondo e che sono tendenzialmente portate ad ignorare i confini fisici e geografici). Elon Musk e Peter Thiel hanno incarnato questo “patto” in quanto titolari di imprese essenziali alla sicurezza e alle ambizioni nazionali (basti pensare alla Palantir del secondo e a Space X e Starlink del primo). Musk, in particolare, con la sua personalità istrionica e visionaria messa al servizio della campagna elettorale di Trump è venuto a rappresentare anche simbolicamente questa “sacra alleanza”. Una liason che, fra l’altro, ha significato una radicale messa in scacco delle politiche woke patrocinate dai democratici ed invise ai “muskiani” per motivi libertari e a Trump con argomenti più conservatori.
Il presidente americano, a cui non manca una buona dose di pragmatismo, probabilmente si renderà presto conto della necessità di “ricucire” in qualche modo con Musk e, soprattutto, di evitare lo smottamento di quel terreno che tiene unita la sua amministrazione alla Silicon Valley. Se è vero che da un punto di vista elettorale egli potrebbe nell’immediato, almeno teoricamente, risentire poco di un eventuale divorzio, è evidente che nel medio e lungo periodo le cose potrebbero cambiare in modo radicale. Più in generale, non avere dalla propria parte i tecnocrati impegnati sulle frontiere avanzate dell’innovazione potrebbe costare caro all’America nell’ottica della competizione globale con la Cina e col suo modello di autoritarismo capitalistico basato sul controllo e la sorveglianza dei cittadini.