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Trump e Musk fanno pace per fare guerra al woke

Dal punto di vista di Musk, il Wokismo è una minaccia esiziale all’essenza stessa del sogno americano
di Giovanni Sallusti giovedì 12 giugno 2025

3' di lettura

Ci piace vincere facile, e anticipare qui la spiegazione che il Giornalista Collettivo darà del riavvicinamento tra Elon Musk e Donald Trump: squilibri umorali, con allusioni moralistiche al consumo di sostanze da parte del primo. Per chi volesse oltrepassare questo grado zero dell’analisi, ribadiamo l’ovvio: il rapporto tra il presidente degli Stati Uniti e l’uomo più ricco del pianeta attecchisce in un groviglio di potere politico, forza economica, visioni condivise, interessi reciproci. Poiché ognuna di queste variabili è allo stesso tempo significativa e parziale, conviene seguire il filo della cronaca. Il primo passo lo fa colui che aveva strappato violentemente, Elon Musk. Ovviamente, su X: «Mi rammarico per alcuni miei post sul presidente Donald Trump. Sono andati troppo oltre».

Per qualcuno con la sua consapevolezza di sé, è un atto clamoroso. Qui conta perfino poco la profondità del “pentimento” nel foro interiore, la relazione Trump-Musk è per sua natura pubblica e ultrapolitica, decisiva per la polis americana. E quello che oggi è fuori dallo Studio Ovale si è probabilmente rammentato del motivo per cui si è (e ha) tanto speso per riportarci dentro l’altro. L’adesione di Musk al trumpismo (e anche il tentativo in parte velleitario di indirizzarlo) poggia anzitutto su quella che per l’imprenditore-visionario è una necessità epocale della civiltà americana (e occidentale). Con sintesi estrema: farla finita con l’abbaglio suicida Woke («ho giurato di distruggere il virus mentale Woke», ha proclamato più volte l’ex Doge). Attenzione: per lui è allo stesso tempo una necessità di business e di idee. Corrisponde a un trauma dell’esistenza, quello del figlio Xavier che ha ultimato un percorso di transizione farmacologico e chirurgico per diventare Vivien (secondo Musk condizionato precocemente dall’ideologia della fluidità di genere). E s’incardina in una problematica aziendale: Tesla si è trasferita in Texas per la iper-regolamentazione e la iper-tassazione californiane, funzionali ad alimentare l’apparato assistenzialista politicamente corretto a favore delle “minoranze” più disparate.

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Dal punto di vista di Musk, il Wokismo è una minaccia esiziale all’essenza stessa del sogno americano: la libertà dell’individuo di autodeterminarsi, senza la quale non esistono nemmeno l’impresa, il mercato, la ricchezza, la corsa prometeica allo spazio. Se questa è la battaglia delle battaglie, Musk sa che politicamente il cavallo-Trump è senza ritorno. Non ce n’è un altro pronto all’uso, visto che The Donald è esattamente il ruggito dell’America profonda (l’“elegia” cantata da JD Vance) contro la follia wokista costiera, ingegneristica, tutta dem. Allora, una riconciliazione almeno parziale tra i due sta nelle cose, nella “verità effettuale” machiavelliana, nei fatturati e nei valori. Lo sa bene anche Trump, che in un forum sul New York Post ha dichiarato: «Non provo alcun rancore» e «penso di potermi riconciliare». Anche al presidente conviene non spezzare il legame con la potenza finanziaria, tecnologica, comunicativa che rappresenta il creatore di SpaceX. Una convivenza, o quantomeno una non belligeranza, che poggia sul permanere delle differenze. Il tecno-libertarismo antistatalista di Musk non può sovrapporsi perfettamente all’agenda di Trump, che è anzitutto l’agenda della working class americana, nuovo blocco sociale del nuovo Partito Repubblicano, quindi l’agenda della re-industrializzazione anche forzata e interventista. Ma il nemico è lo stesso, è quello che stava uccidendo il sogno, e senza il sogno non esistono né le fabbriche della Rust Belt né le astronavi per Marte.

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