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L'Iran si è servito di Obama per arrivare a un passo dalla bomba atomica

Pochi giorni fa, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica aveva lanciato l’allarme sulle riserve di uranio arricchito, ormai giunte al livello critico per l’impiego militare
di Dario Mazzocchi sabato 14 giugno 2025

2' di lettura

Un salto nel recente passato, febbraio 2012, per capire il presente: gli Stati Uniti di Barack Obama e l’Iran avviano una serie di colloqui segreti che in tre anni portano al Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), noto come l’accordo sul nucleare iraniano. Porta la firma, oltre che di Washington e Teheran, degli altri Stati membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu assieme agli Usa (Regno Unito, Francia, Cina e Russia) e della Germania. Avrebbe dovuto essere, a detta del mondo diplomatico, un accordo vantaggioso per tutti e invece ecco che all’inizio dello scorso giugno l’Aiea (l’Agenzia internazionale dell’energia atomica) segnala un rapido accrescimento della riserva dell’Iran di uranio arricchito al 60%, ultimo stadio prima di diventare utile per una detonazione atomica. E con Israele all’attacco.

Con il Jcpoa, le autorità iraniane accettavano – mentendo - di arricchire l’uranio fino a una purezza del 3,67%, livello sufficiente per l’energia nucleare civile e ben lontana dalla soglia del 90% per l’impiego militare, e di ridurre le centrifughe attive per l’arricchimento dell’ambito elemento chimico. Gli esperti lo consideravano come un prolungamento del “tempo di breakout” necessario per accumulare materiale fissile per un’arma nucleare.

Aspetti che non hanno mai convinto una parte di opinione internazionale, rappresentata soprattutto dai Repubblicani americani e dai vertici militari israeliani. Le critiche rimarcavano già come l’accordo non fosse da considerarsi completo (non escludeva il programma missilistico iraniano) e come l’allentamento delle restrizioni avrebbe permesso ai gruppi terroristici di Hamas, Hezbollah e Houthi di accedere a ingenti somme di denaro. In aggiunta, il patto includeva clausole di scadenza: da qui il timore – fondato - che fosse solo una messa in pausa del programma nucleare iraniano.

Così quando Donald Trump arriva alla Casa Bianca per il suo primo mandato, lo scenario cambia. Nel maggio 2018 gli Stati Uniti si sfilano dal Jcpoa proprio perché la nuova amministrazione ritiene l’accordo non abbastanza rigoroso e giudica inaccettabili le clausole di scadenza. È la «massima pressione» trumpiana, con la reintroduzione di tutte le sanzioni Usa per costringere Teheran a ripresentarsi a un nuovo tavolo delle trattative, colpita nell’economia (contrazione del Pil del 9% nel solo 2019, specie per il crollo delle esportazioni di petrolio). Di mezzo c’è anche l’eliminazione di Qasem Soleimani, comandante delle forze speciali, eliminato a Baghdad il 3 gennaio 2020.

Con Joe Biden, tra il 2021 e il 2022, le negoziazioni riprendono, ma davanti all’atteggiamento ondivago della controparte nel voler rispettare i paletti imposti, nemmeno Biden compie un effettivo passo distensivo. Un patto dichiarato «morto» e un nuovo capitolo da scrivere, con il ritorno in scena di Trump che da una parte parla di un potenziale «conflitto massiccio» con il regime, dall’altra apre alla possibilità di trovare un punto d’incontro, con le recenti trattative a cui fa da sfondo anche Roma che ad aprile ospita le rispettive delegazioni. Due mesi dopo, il messaggio da Washington è sempre quello: l’Iran accetti le nuove condizioni o metta in conto attacchi più brutali.

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