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Hulk Hogan, i progressisti scomunicano perfino il lottatore di wrestling

L'ultima "fondamentale" battaglia culturale della sinistra? Quella contro la star scomparsa: a cosa sono ridotti...
di Giovanni Sallusti sabato 26 luglio 2025

3' di lettura

Fermi tutti, irrompe una nuova battaglia culturale fondamentale della sinistra: quella contro Terrence Gene Bollea, al secolo (anzi, ormai nel mito) Hulk Hogan. E il problema è già nella parentesi: il progressismo medio(cre) contemporaneo è allergico a tutte le narrazioni emblematiche, a tutte le simbologie autosufficienti (che certo possono essere trash oltre che pop), deve mettere tutto in prosa, destrutturare ogni cosa in sociologismo, trapiantare l’ideologia anche in quel terreno completamente aideologico che è il ring dei wrestler. E allora nei commenti e sui giornali di ieri era un clima generale col sopracciò, era tutto un darsi di gomito a sottolineare la propria superiorità morale rispetto al defunto, tutto un tromboneggiare sullo yankee troppo ossigenato, troppo palestrato, troppo trumpiano. Colui che ha dato corpo più coerente a questa crociata anti-hoganiana è stato il sociologo della comunicazione Massimiliano Panarari sulla Stampa.

Hogan non era affare né di sociologia né di comunicazione, era reiterazione rituale tipicamente americana come poteva essere il Wild West Show di Buffalo Bill, qualcosa non da analizzare, ma da andarsi a rivedere (per chi vuole). Panarari invece ha la lezioncina innescata, e parte in quarta: Hulk era «la personificazione di una fake news, perché questo è giustappunto il wrestling». No, la paradossale, basica, bukowskiana sincerità del wrestling sta proprio nel dichiararsi come finzione, fin baracconesca, laddove l’essenza della fake news è presentarsi come vera, per fuorviare e orientare. Ma chissenefrega, a Panarari non interessa la comprensione del fenomeno né tantomeno della persona, lui ha già da sempre in testa un obiettivo preciso. Non preoccupatevi, non serve molta fantasia, e nemmeno poca: trattasi del «collateralismo integrale con il trumpismo», di cui l’Hulk «rosso-repubblicano», anziché verde, «è stato un incrollabile portabandiera».

Tutti noi bambini nei primi Novanta, che mimavamo l’epica elementare e un po’ cialtrona del circo-wrestling facendo scontrare sul tavolino del salotto l’omino di Hogan con quello di André the Giant, anche se non lo sapevamo, stavamo dando sponda a «una roccaforte delle trasformazioni sempre più estremistiche della destra». È la la Wwe (World Wrestling Entertainment) come incubatore del conservatorismo americano e occidentale, una lettura talmente paranoica da avere una sua coerenza interna, per cui si va dall’Hulk Hogan smagliante degli anni ‘80 (reaganiano, si potrebbe dire seguendo la logica politichese di Panarari) fino alla sua «corrispondenza d’amorosi sensi con Donald Trump».

Hulk Hogan, dove è morto? Cosa proprio non torna

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Le star patinate di Hollywood stanno con i Democratici per afflato civile, queste icone stropicciate e residuali del wrestling guardano ai Repubblicani per abiezione condivisa. Eccoli lì allora, The Hulk e The Donald, «ambedue uomini di spettacolo che sulla finzione hanno costruito solidissime carriere». Non obietteremo che l’immobiliarista e costruttore Trump ha generato ricchezza e posti di lavoro, stiamo al punto: il vecchio wrestler infine battuto dalla vita randagia e steroidea che si era scelto come incarnazione (troppo) muscolosa della «post-verità» sovranista e, diciamolo, cripto-fascista. Il tutto intriso «di quella violenza che sta nel dna originario della nazione».

Nel dna originario dell’America, al massimo, ci sta quella Frontiera rispetto a cui la violenza e il combattimento sono stati metodi di approccio necessari (e di cui il wrestling può essere inteso come rievocazione parodistica). Consiglieremmo a tal proposito al buon Panarari la lettura di “La Frontiera nella storia americana” del grande storico Friedrich J. Turner, ma non vorremmo distoglierlo dal suo compito urgente: contrastare l’eredità culturale di Hulk Hogan.

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