Se credevate ingenuamente che i "martiri" esistessero solo nell’immaginario islamista, vi sbagliavate. E di grosso. L’Italia, a quanto pare, ne è piena. L’intero Occidente ne è pieno. Un Occidente ormai popolato da una nuova generazione di “santificatori” del terrorismo. Oggi, i miliziani di Hamas non solo vengono giustificati, ma addirittura celebrati: pianti come vittime, esaltati come eroi, idolatrati come simboli di una causa a cui si perdona tutto, anche il massacro. Per assurdo, i terroristi di Hamas vengono compatiti, idealizzati e mitizzati più in Europa che in Medio Oriente. È un paradosso grottesco e alquanto allarmante: mentre alcune società arabe iniziano lentamente a interrogarsi sulle responsabilità del fondamentalismo, qui da noi si elevano a icone coloro che, sotto il pretesto di una presunta resistenza, seminano morte deliberata. A furia di confondere vittima e carnefice, il terrorismo viene romanticizzato, i tagliagole umanizzati e i martiri consacrati.
È questo, ovviamente, il caso di Anas Al Sharif: pseudo-giornalista, ma in realtà figura di spicco di Hamas, la cui voce oggi viene fatta risuonare in Italia come se fosse quella di un profeta. A Ferrara ne hanno messo il ritratto sotto la lapide delle vittime, fra le quali anche due ebrei, dell’Eccidio del Castello estense, ricordato da Giorgio Bassani nel racconto La notte del ’43 e poi dalla sua versione cinematografica diretta da Florestano Vancini.
Il testamento del “martire” ora viene letto, condiviso, citato, quasi fosse la Bibbia. «Vi lascio la Palestina», ha detto. Grazie molte, ma cos’altro ci hai lasciato caro Anas? La risposta è semplice: morte. Morte e distruzione. Altro che Palestina. Il reporter-terrorista ha lasciato un’eredità di violenza travestita da eroismo. Le prove fornite dall’Idf, già ampiamente disponibili in rete, sono numerose e inconfutabili. Foto e video che non lasciano spazio all’immaginazione: Anas che viene abbracciato amorevolmente dal Capo di Hamas, Yahya Sinwar. Anas che si fa un selfie con lo stesso Sinwar e altri due vertici dell’organizzazione terroristica. Anas che, in diretta televisiva durante il macabro show della liberazione degli ostaggi, spostava con la dolcezza e la delicatezza di una carezza un terrorista armato fino ai denti.
Ma non solo. Esiste un documento ben più rilevante che riguarda direttamente Anas Al Sharif, e che è stato pubblicato ben prima della sua eliminazione. Tempo fa, nel silenzio omertoso dell’opinione pubblica, i parenti degli ostaggi israeliani rapiti il 7 ottobre hanno intentato una causa contro Al Jazeera, citando più e più volte proprio la presenza e il ruolo attivo di Anas Al Sharif. Non era un segreto. Era tutto nero su bianco, accessibile a chiunque volesse guardare. Ma come spesso accade, la verità è rimasta sepolta sotto la coltre dell’indifferenza. O peggio, della complicità ideologica.
«Nell’ottobre 2024, l’IDF ha scoperto nella Striscia di Gaza una serie di documenti che inchiodano definitivamente almeno sei giornalisti affiliati ad Al Jazeera», scrivono i parenti degli ostaggi. «I nomi sono chiari: Anas al-Sharif, Alaa Salameh, Hossam Shabat, Ashraf al-Sarraj, Ismail Abu Omar e Talal al-Arrouqi. Secondo quanto riportato, questi individui agivano come veri e propri agenti operativi di Hamas e della Jihad Islamica sotto la copertura del giornalismo. I materiali rinvenuti - fogli di calcolo del personale, elenchi di corsi di addestramento, rubriche telefoniche e registri degli stipendi - non lasciano spazio a dubbi: si trattava di membri attivi e stipendiati dell'apparato terroristico».
Ecco, non a caso il 7 ottobre 2023, ovvero il giorno del più grande massacro di civili ebrei e israeliani dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi, Al Sharif aveva celebrato sui suoi social gli orrori di Hamas. «Sono passate nove ore e gli eroi continuano a vagare per il paese uccidendo e catturando... Dio, Dio, quanto sei grande», scriveva il giornalista premio Pulitzer e premio Nobel per la Pace. Non a caso appena un mese fa, proprio sulle pagine di questo quotidiano, ponevo una domanda che oggi risuona con ancora più impellente: si può davvero definire "giornalista" chi collabora con Hamas?
È forse giornalista Bayan Abu Sultan, che sul suo profilo X invitava a «riguardare i filmati del 7 ottobre» per consolarsi nei momenti di sconforto? È giornalista Abdallah Aljamal, volto noto di Al Jazeera che, tra un articolo e l’altro ovviamente, ha tenuto in ostaggio Noa Argamani nella propria abitazione privata? È giornalista Hassan Aslih, collaboratore della CNN immortalato mentre si abbracciava stretto stretto con il pluriomicida Yahya Sinwar, ricevendone peraltro un bacio affettuoso sulla guancia? E che dire di Anas Al Sharif, che sotto la copertura di reporter di guerra guidava una cellula terroristica impegnata nella pianificazione e nell’esecuzione di attacchi missilistici contro civili israeliani?
La risposta era chiara allora e lo è ancora di più oggi: no, queste persone non sono giornalisti. Chi collabora con il terrorismo, chi partecipa attivamente ai crimini terroristici di Hamas o ne fa apologia, non può rifugiarsi dietro la professione giornalistica. Indossare un giubbotto blu con la scritta “press” non conferisce immunità morale né professionale: se si agisce da terrorista, si è un terrorista.