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Trump ha smascherato i grandi economisti

Gli anni d’oro (si fa per dire) della globalizzazione sono definitivamente finiti. Fra i tanti segnali, ce ne è uno forse poco evidente ma sicuramente significativo
di Corrado Ocone giovedì 14 agosto 2025

3' di lettura

Gli anni d’oro (si fa per dire) della globalizzazione sono definitivamente finiti. Fra i tanti segnali, ce ne è uno forse poco evidente ma sicuramente significativo: la fine dell’aura che ha circondato gli economisti, soprattutto quelli (la stragrande maggioranza) di tendenze liberal e progressisti. Donald Trump che umilia il Premio Nobel Paul Krugman definendolo un «barbone squilibrato», ne sia consapevole o meno, si collega direttamente (a parte i toni) alla Margareth Thatcher che criticava gli economisti del suo tempo per aver fallito ogni previsione sull’andamento del mondo. A partire dagli anni Novanta, e poi per i due decenni successivi, la figura dell’economista ha dominato incontrastata nel dibattito pubblico ed è stata quasi sacralizzata. La sua voce è stata influente presso i governi, ascoltata e riverita dai media, riconosciuta dalle più rinomate istituzioni, insignita di premi e onorificenze, foraggiata con consulenze milionarie.

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Se un tempo gli intellettuali più vicini al potere erano storici e filosofi, se oggi sono gli scenaristi e gli esperti militari e di geopolitica, per tutto il periodo della globalizzazione sono stati i Krugman, i Sen, gli Stiglitz, i Piketty, a dettare legge. Intellettuali forse insigni ma che certo non si può dire che abbiano capito ove portasse la globalizzazione, che hanno assecondato anche quando la criticavano. In sostanza a loro si può imputare, col senno del poi, di non aver riconosciuto che le politiche da loro auspicate e promosse aumentavano e non diminuivano i mali che intendevano combattere, cioè le ingiustizie e le diseguaglianze. Essi cioè non si sono resi conto che le loro idee erano funzionali ad un sistema, quello capitalistico, che, per sua natura, tende ad inglobare e a metabolizzare anche le idee che sembrerebbero metterlo in crisi. Un sistema che, fra l’altro, si era enormemente trasformato dai tempi della Thatcher, sostituendo la figura dell’imprenditore che rischia con quello della finanza impersonale e transnazionale.

Non riconoscendo la necessità per l’operatore economico di inseguire prima di tutto il proprio profitto, fonte di ricchezza per l’intera società, gli economisti di cui sto parlando hanno rincorso l’idea di un capitalismo etico, “sostenibile”, green, che è stato ipocritamente fatto proprio dai grandi operatori economici che, con la complicità di una politica che ha abdicato al proprio ruolo, ha finito solamente per impoverire ancor più i già poveri (il caso delle politiche europee legate al New Green Deal è da questo punto di vista da manuale!). Nel predominio degli economisti liberal si è perciò manifestata proprio quella liason dangereuse fra un falso liberismo e il politically correct in cui è consistita propriamente l’ideologia che chiamiamo globalismo. Donald Trump, con il suo fiuto innegabile, ha intuito o meglio si è fatto espressione del rifiuto che ad un certo momento ha avuto il sopravvento nelle società occidentali e in quella americana in particolare. Riaffermando, proprio come fece la Thatcher, il primato della politica (oggi è assodato, fra gli studiosi, che il dimagrimento delle pretese della politica e dello Stato fu realizzata dalla lady di ferro, paradossalmente, proprio attraverso un forte interventismo politico e statale). E soprattutto colpendo quelle università che erano diventate un vero e proprio laboratorio delle idee radicali e di cui gli economisti à la page hanno rappresentato in qualche modo l’asse portante. Non sappiamo ove porteranno le politiche di Trump, anche perché (e per fortuna) la storia umana si svolge all’insegna della libertà e dell’imprevedibilità (che gli scienziati sociali, e gli economisti, spesso vorrebbero negare con le loro previsioni rigide e inappellabili). Quel che è sicuro è che sotto tanti aspetti, ed anche (e forse soprattutto, quello della egemonia culturale degli economisti), le cose con lui sono rapidamente cambiate.

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