All'inizio del Trump 2.0, di fronte alla volontà americana di limitare la spesa per sostenere l'Ucraina, i grandi Paesi europei hanno risposto lanciando un mega piano di riarmo che sarebbe dovuto suonare così: «Facciamo da soli».
Poi però i Capi di Stato maggiore hanno dato uno sguardo ai magazzini, uno alle truppe e uno al complesso industriale. Hanno fatto pervenire i dossier ai governi. E, presi dal panico, tutti sono tornati a pensare che per scongiurare la minaccia russa fosse meglio continuare a contare sulla Nato. A partire dal Regno Unito.
Colosso militare fino agli anni ’80 e tra i principali supporter dell’Ucraina fin dal 2014, guida la «coalizione dei volenterosi» ed ha dato la propria disponibilità ad inviare soldati per garantire la sicurezza di Kiev dopo che sarà firmata la pace: «Ma non in prima linea», ha detto al Guardian il Capo di Stato Maggiore Tony Radakin. Londra ha fissato l’aumento della spesa per la Difesa al 2,4% del PIL, puntando a raggiungere il 5% e concentrandosi su tecnologie di nuova generazione: droni, intelligenza artificiale e sistemi laser. Anche perché, se la Royal Navy dispone di due portaerei operative, la RAF resta moderna e l’arsenale nucleare un pilastro della Nato, Londra non ha effettivi: dai 110mila uomini del 2010 si è scesi a 73mila, con cali continui di reclutamento. Le artiglierie a lungo raggio sono appena 14 (meno che in Estonia), le difese aeree sono quasi inesistenti e le scorte di munizioni insufficienti per una guerra di attrito.
Deve fare proprio tutto daccapo la Germania, che già nel 2024 ha speso circa 90 miliardi per la difesa e vuole arrivare a 160: un salto che trasformerebbe la Bundeswehr nella più grande forza convenzionale europea. Solo che conta 182mila soldati ma non riesce a reclutarne di nuovi. I colossi industriali Rheinmetall, Airbus e Diehl garantiscono una base produttiva di rilievo, ma la realtà sul campo resta problematica: solo il 30% degli elicotteri navali e metà dei sottomarini sono operativi, le scorte di munizioni sono insufficienti e gli armamenti risultano in gran parte obsoleti.
La debolezza maggiore? La dipendenza dalla Cina per materie prime critiche come tungsteno e titanio. Senza quelle, la potenza militare tedesca rischia di restare sulla carta. Alla Germania si lega a doppio filo il destino dell'Italia che fino ad ora è rimasta sotto la soglia del 2% fissata dalla Nato ma che conta due portaerei, un’aviazione di rilievo e 165.000 soldati. Il punto debole sono le forze terrestri, considerate antiquate. Per invertire la rotta, dovrà contare anche su Rheinmetall per modernizzare i corazzati. Ma la Germania ha già i problemi che ha e comunque il governo Meloni ha detto chiaramente che non invierà truppe.
La Francia, pur in crisi, in questo scenario sembra messa meno peggio: resta l’unico Paese UE con arsenale nucleare (circa 350 testate), ha la portaerei “Charles de Gaulle”, una flotta di sottomarini strategici e i caccia Rafale (alcuni con capacità atomica).
Le forze armate contano 203.000 soldati, a cui si aggiungono 175.000 gendarmi e paramilitari e 26.000 riservisti. Le carenze operative però restano gravi: metà degli aerei da combattimento non è disponibile, le scorte di munizioni sono ridotte, mancano sistemi anti-radar e tecnologie di guerra elettronica.
Si approvvigiona non a caso fuori dalla Ue, infine, la nuova potenza europea: la Polonia. Con una spesa già pari al 4,12% del PIL nel 2024, conta 150mila soldati e punta a quintuplicarne le dimensioni. Gli acquisti sono imponenti: oltre 600 carri armati dalla Corea del Sud, sistemi HIMARS, Patriot e caccia F-35 dagli Usa. Il punto debole potrebbe essere la sostenibilità: una crescita così accelerata rischia di creare qualche grattacapo finanziario.