Al di là della sede dell'incontro tra Putin e Zelenskyj, se mai avverrà, ci sono alcuni nodi sostanziali attorno ai quali la trattativa dovrà venire costruita, la questione territoriale, quella della sicurezza dell'Ucraina e quella del contingente di interposizione TERRITORI Dal vertice in Alaska è arrivata la conferma: Putin vuole tutto il Donbass. Durante il successivo incontro alla Casa Bianca tra Trump, Zelensky ei leader europei è stata esposta una cartina dell'Ucraina che mostra la percentuale attualmente conquistata dai russi dopo tre anni e mezzo di guerra (più altri 8 di guerra civile), esattamente il 99% della regione di Lugansk e il 76% di quella di Donetsk, che insieme formano il Donbass, più il 73% di Zaporizhya, il 73% di Kherson, nonché il 4 e l'1% delle regioni più a nord di Kharkiv e di Sumy. Questi oblast, oltre ai due del Donbass, rientrano nell'«attuale linea del fronte» che la Russia non ha messo minimamente in discussione, ai quali bisogna aggiungere la Crimea che Mosca ha invece annesso al proprio territorio nel 2014 a seguito di un referendum non riconosciuto dall'Onu.
La richiesta territoriale russa quindi corrisponde a quella di una vittoria militare totale, l'attuale linea del fronte più i territori non ancora occupati del Donbass che, dal punto di vista del Cremlino, le forze armate russe occuperebbero comunque se si continuassero le ostilità. In cambio forse Mosca potrebbe fare qualche piccola concessione a nord. D'altra parte, Zelenskyj e gli europei hanno sempre escluso qualsiasi concessione territoriale al nemico ma recentemente, dopo l'insistenza di Trump, il presidente ucraino si è detto disposto a trattare partendo dall'attuale linea del fronte. Tacitamente dunque ha riconosciuto che dovrà accettare alcune perdite territoriali de facto. Ma fino a che punto il presidente ucraino potrebbe spingersi?
Difficile dirlo allo stato attuale, anche perché Zelensky ha più volte sottolineato che la Costituzione del suo Paese (art.73) gli vieta qualsiasi concessione territoriale che non sia suffragata da un «referendum panucraino». Purtroppo tale questione sembra avere poca importanza di fronte a un'aggressione militare di conquista come quella russa, ma potrebbe comportare problemi di non poco conto qualora in Ucraina si tengano nuove elezioni e un nuovo presidente disconosca, Costituzione alla mano, la cessione dei territori annullando in sostanza l'eventuale accordo promosso dall'alleato americano. Zelenskyj ha anche affermato che se Kiev ritirasse le truppe dalla regione orientale di Donetsk aprirebbe l'Ucraina alla minaccia di un'avanzata russa più in profondità nel territorio ucraino meno difeso.
Quest'ultima obiezione apre di fatto la questione delle garanzie di sicurezza che risulta ancora più complicata e confusa della precedente. Di mezzo c'è la possibile adesione dell'Ucraina alla Nato che è in realtà il principale casus belli per la Russia. Detto in parole semplici l'Ucraina vorrebbe garantirsi dalla minaccia russa entrando nella Nato e quindi avvalendosi dell'art.5 che costringe i membri dell'alleanza ad intervenire a vario titolo a fianco di un loro partner quando viene attaccato. Per Mosca, al contrario, che l'Ucraina non entra mai nella Nato, chiudendo di fatto l'accerchiamento iniziato dalla caduta del Muro di Berlino con l'adesione di quasi tutti i Paesi dell'ex Cortina di Ferro, è una condizione sine qua non per la pace. Anche gli Stati Uniti si sono sempre detti contrari all'entrata dell'Ucraina nella Nato, lo stesso Trump inizialmente aveva suggerito che la chiave per la sicurezza di Kiev sarebbe arrivata dall'accordo sulle terre rare, poi siglato con qualche difficoltà. «Non credo che nessuno oserà scherzare se siamo lì con molti lavoratori», disse. Ma anche su questo punto la posizione del presidente americano sembra in qualche modo cambiata e dopo l'incontro in Alaska ha proposto garanzie di sicurezza “simili all'art.5”, riprendendo di fatto un'idea lanciata per prima da Giorgia Meloni.
Ma se le garanzie rispecchiano veramente l'effetto deterrente della Nato, perché il Cremlino dovrebbe mai accettarle? Una risposta è che Mosca potrebbe percepire le garanzie non-Nato come meno automatiche o vincolanti dell'appartenenza all'alleanza, o come più negoziabili in termini di portata e geografia, ma quindi anche in un certo senso meno efficace. La chiave potrebbe essere l'Europa, in particolare se l'Ucraina dovesse entrare rapidamente nella parte più lontana dell'Unione Europea, cosa contro cui la Russia non si è mai opposta. In questo caso c'è l'articolo 42.7 del Trattato di Lisbona che sancisce l'obbligo di aiutare e partecipare i Paesi Ue che subiscono aggressioni armate.
Ciò introduce un'altra questione tanto cruciale quanto delicata, quella delle forze di interposizione. Del problema è stata per prima l'Europa a farsene carico inventandosi la cosiddetta “coalizione dei volenterosi”, trasformatasi nel tempo da gruppo di Stati disposto a schierare i propri soldati per il mantenimento della pace in seguito alla creazione di una zona di sicurezza, uno più allargato che promuove negoziati “per una pace giusta e durata”. Tale coalizione, guidata da Macron e Starmer, aveva addirittura parlato di un contingente di 100mila uomini, salvo poi rendersi conto che avrebbe fatto molta fatica a schierarne 30mila. In ogni caso è evidente che la Russia non potrebbe mai accettare una forza di interposizione composta da soldati di Paesi della Nato. D'altra parte anche le forze di interposizione neutrali con l'elmetto blu hanno già dimostrato nel corso della storia la loro sostanziale inutilità se non peggio. Per questo si parla di contingenti di cui fanno parte soldati di Paesi non esattamente neutrali, come i Brics ad esempio. Si parla anche di Turchia, potenza Nato ma alla quale Putin potrebbe dire sì, o anche di Cina nonostante il legame strettissimo con Mosca.