Era il 26 settembre 2022. Il centrodestra a guida Giorgia Meloni aveva appena vinto le elezioni e si avviava a formare il governo. Da Parigi, però, insieme alle paludate felicitazioni del presidente Macron, era arrivata anche una stilettata nei confronti della destra. Il primo ministro, la macroniana Élisabeth Borne, disse che la Francia avrebbe vigilato sul rispetto dei diritti umani in Italia.
L’antifona era, naturalmente, che questi fossero messi a repentaglio dalla supposta intolleranza della destra (neofascista, ça va sans dire) nei confronti delle minoranze. «Ovviamente» aveva detto Borne, «saremo attenti, e con la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, a garantire che questi valori sui diritti umani, sul rispetto reciproco, in particolare sul rispetto del diritto all’aborto, siano rispettati da tutti». Immediato lo sdegno da parte italiana, con tanto di intervento del capo dello Stato, Sergio Mattarella («Sappiamo badare a noi stessi»).
Ma questo è solo uno soltanto degli interventi a gamba tesa di esponenti del governo francese nella nostra politica. Perché, checché ne dicano dall’opposizione, stracciandosi le vesti per il caso diplomatica innescato dalle parole del vicepremier Matteo Salvini contro Macron («Ti metti il caschetto, il giubbetto, il fucile e vai in Ucraina»), i rapporti tra Parigi e Roma sono da sempre piuttosto tesi e, spesso, per colpa dei francesi. Basti pensare a quanto accadde nel maggio 2023. Dopo aver accusato il governo Meloni di essere «disumano» per aver lasciato in mare aperto la nave Ong Ocean Viking, carica di 230 migranti, rifiutando di farla attraccare sulle coste italiane e costringendola a sbarcare a Tolone, il ministro degli Interni, Gérald Darmanin aveva attaccato direttamente la premier. «Meloni» aveva detto, «è incapace di gestire i problemi migratori per i quali è stata eletta», aggiungendo che quello italiano è un «governo di estrema destra scelto dagli amici di Marine Le Pen».
Il tutto per polemiche di politica interna, peraltro. Perché Darmanin aveva fatto scoppiare un caso diplomatico per rispondere a Jordan Bardella, braccio destro di Le Pen e presidente del Rassemblement National, che era andato in visita a Mentone e Ventimiglia. Nonostante i rinforzi inviati dall’Eliseo per aumentare i respingimenti di migranti in arrivo dall’Italia, Bardella aveva parlato di tentativo «insufficiente e derisorio» e aveva ribattezzato Darmanin «ministro dell’immigrazione di massa». Così, per scaricare il barile, il titolare dell'Interno aveva dato la colpa al governo Meloni. «La verità è che c’è una situazione politica in Tunisia» aveva detto il ministro francese «per la quale molti minorenni arrivano in Italia, senza che l’Italia sia in grado di gestire questa pressione migratoria».
Ovviamente l’indignazione fu tale che persino il solitamente compassato Antonio Tajani rispose per le rime a Darmanin. «Parole inaccettabili» disse il ministro degli Esteri, annullando inoltre l’incontro a Parigi con il suo omologo francese, Catherine Colonna. Anche pochi mesi fa, per la precisione a maggio, si è registrato uno screzio tra Parigi e Roma. Dopo che la premier Meloni aveva scelto di non partecipare al vertice tra Gran Bretagna, Francia, Polonia, Germania per risolvere il conflitto in Ucraina, adducendo come motivo la contrarietà italiana all’invio di truppe sul suolo ucraino, il presidente francese si era stizzito. «Non c’è mai stata una discussione, né a Kiev domenica, né oggi sull’invio di truppe» aveva detto Macron.
«Dobbiamo essere seri riguardo alle informazioni che diamo su questi argomenti: si tratta di ottenere un cessate il fuoco dalla Russia, costruire una pace duratura con garanzie di sicurezza» aveva aggiunto, sottolineando la necessità di evitare di divulgare «false informazioni su questo argomento» perché «ce ne sono abbastanza diffuse dai russi e dalle reti che li seguono». Ma c’è dell’altro. Già nel 2018, con il governo Conte I, sostenuto da Lega e M5s, da Parigi si erano sentiti in dovere di intervenire. Il Commissario Ue all’economia, il francese Pierre Moscovici, aveva attaccato direttamente Matteo Salvini, all’epoca ministro dell’Interno e vicepremier. Facendo un paragone con gli anni ’30, Moscovici aveva detto che «non dobbiamo esagerare, non c’è Hitler, ma per quanto riguarda dei piccoli Mussolini, questo resta da verificare». Un’allusione nemmeno tanto velata a Salvini, definito «il più nazionalista» dei ministri dell’Interno Ue.