Democrazie e dittature funzionano sostanzialmente allo stesso modo: ci sono dei gruppi, espressione di determinati interessi, che si scontrano per il potere. Unica grossa differenza: nei paesi liberi lo scontro ha luogo pubblicamente, nei parlamenti, sui Mass media, comunque quasi sempre alla luce del sole mentre nei moderni regimi tirannici tutto avviene di nascosto. Questo fatto è all’origine di una professione particolare: ai tempi dell’URSS c’erano i sovietologi. Oggi abbiamo i cremlinologi il cui lavoro consiste nel dedurre i cambiamenti nelle politiche russe in base a indizi minimi. Un putinologo oggi dovrebbe spiegare perché la Russia, che ha tutte le carte in mano per ottenere il massimo dalle trattative di pace con la derelitta Ucraina, invece si tiri indietro, metta paletti ogni dove, prosegua la guerra nel modo più sanguinario possibile. Perché Putin vuole la guerra anche se la pace sembrerebbe convenirgli? La risposta è ovvia: perché pensa che in realtà non gli convenga. A dispetto dell’apparenza monolitica del regime russo, possiamo immaginare che, come è sempre avvenuto nella storia del più grande paese sulla Terra, ci siano due “partiti” che si fronteggiano. Uno che guarda a occidente, l’altro a oriente. Uno che vorrebbe approfittare delle aperture di Donald Trump, l’altro che invece preferisce l'abbraccio della dittatura cinese. Questo secondo “partito” sembra abbia preso il sopravvento e lo si capisce dal fatto che il Cremlino ha scelto di puntare sulla guerra invece che sulla pace.
Non perché la cosa piaccia ai Cinesi (la Cina di cui parliamo è soprattutto nella testa dei Russi) ma perché il conflitto ha reso più forte internamente la dittatura. Prima della guerra, Alexander Dugin scrisse un libro in cui in sostanza diceva: bravo Putin in politica estera stai andando alla grande. Ma in Russia dovresti essere più tirannico. Il ragazzo si impegna ma può dare di più. La Russia quindi preferisce la guerra alla pace. Trump invece vuole la pace, per sete di Nobel o per spezzare l’intesa fra Mosca e Pechino. Per un po’ ha usato il bastone con Zelensky e la carota con Putin. Da qualche tempo ha mutato strategia: da una parte sta convincendo l’ucraino che il bastone si può sgranocchiare ed è persino buono. Dall’altra fa chiare allusioni rivolte ai Russi circa il fatto che una carota sufficientemente voluminosa ha degli utilizzi che possono rivelarsi sgradevoli.
L’Ucraina non ha molte scelte e fa quello che le dicono di fare. Resta l'Europa che per Mosca è diventata guerrafondaia. I Russi lo dicono lamentandosi però, se è vero quello che abbiamo ipotizzato sopra e cioè che il Cremlino preferisce il conflitto, in realtà Macron e Starmer stanno facendo un favore a Vladimir Vladimirovich. Invece di spingere perché i combattimenti finiscano e la Russia si prenda solo quello che è riuscita a rubacchiare finora e soprattutto affinché l’Ucraina, anche menomata, possa essere agganciata definitivamente al mondo occidentale (questo è il vero problema e sembra averlo compreso soltanto Giorgia Meloni), i cosiddetti volenterosi non fanno altro che prolungare l’agonia di Kiev. L’errore è duplice. In primo luogo ci si dimentica che i più grandi successi l’occidente li ha realizzati non in guerra bensì in pace: l’unione sovietica non è crollata a colpi di missili Pershing. E l’EuroMaidan non è nata da una battaglia. In guerra la Russia è più forte dell’Europa, in pace è il contrario. È l’economia. Secondo errore: la guerra per l’Ucraina non sta finendo ma è appena iniziata. È uno scontro secolare fra est e ovest, dittatura e democrazia e si allargherà, se l’occidente saprà essere all’altezza del compito, a Bielorussia, Georgia e inevitabilmente alla Russia al di qua degli Urali. Non c’è fretta: che Putin pensi pure di avere vinto.