Sembra che il problema, per certi esperti del marketing stakanovisti dell’eccentrico, sia lanciare una campagna pubblicitaria al limite dell’ingannevole. Può succedere a coloro che lavorano per grandi e piccoli marchi, e se ne capisce il motivo venale. Ma può succedere anche a chi si ammanta di moralità e allora, quando a inciampare per un ghiribizzo sono le Nazioni Unite, con i cui scandali ai danni delle donne ci si può riempire un libro, ecco allora ci viene più a noia. Due giorni fa, sull’account X di Un Women, l’ente delle Nazioni Unite per la parità di genere e l’emancipazione femminile, è stato pubblicato questo post: «Con il maggior numero di conflitti in corso dal 1946, il ruolo delle donne nella costruzione della pace è più importante che mai. Assieme alle donne sul campo, Un Women sta promuovendo la leadership femminile per un mondo in pace».
Non bastasse la patina d’utopia color caramella, sotto al testo compare una fotografia: una donna coperta da un niqab mosso dal vento allunga la mano verso l’obiettivo, nel palmo ci sono tre semi, alle sue spalle altre donne vestite alla stessa maniera. Lo slogan è «dove guidano le donne, segue la pace». Il collegamento tra il velo e la donna al comando stona a tutti: la foto è stata scattata in Sudan, nella comunità rurale di Tokar, nel nordest di uno dei Paesi più pericolosi al mondo per il genere femminile. Secondo quanto riporta lo stesso ente delle Nazioni Unite, infatti, a partire dall’aprile 2023, quando è scoppiato il conflitto interno tra le Forze di supporto rapido e le Forze armate sudanesi, i casi di violenza sessuale, sfruttamento, torture e abusi sono in aumento e non vengono denunciati a causa dello stigma o per paura di rappresaglie. Le famiglie matriarcali sono colpite in mono sproporzionato dall’insicurezza alimentare, 1,63 milioni di donne in età riproduttiva non possono accedere ai servizi sanitari di base, 2,5 milioni di ragazze non frequentano la scuola, i matrimoni forzati e le mutilazioni genitali sono la norma.
Non bastasse, basta scorrere un po’ la pagina social di Un Women per trovare un’altra magagna: la stessa foto con cui l’altroieri sono stati celebrati i 25 anni dalla risoluzione 1325, quella che stilava l’agenda “Donne, pace e sicurezza” e che sanciva l’impegno della comunità internazionale «per la partecipazione paritaria delle donne come agenti di pace» (capirai...), è stata usata ad agosto dalla sezione africana di Un Women proprio per denunciare la tragedia in corso. «Il 75% delle famiglie guidate da donne in Sudan non riesce a soddisfare i propri bisogni alimentari di base», era lo slogan applicato all’africana con il niqab, discriminata, sofferente per essere stata esclusa dalla leadership e oppressa con la forza. A non voler pensare che pure al Palazzo di vetro si riciclano le foto da quando, dopo anni di obiettivi non raggiunti, è toccato stringere la cinghia, due domande sono d’obbligo: è dove le donne sono trattate come una pezza da piedi che portano la pace? È dove le donne indossano il velo che diventano capi di Stato o di governo?
No, ovviamente. Nella storia se ne contano due, Benazir Bhutto in Pakistan e Sheikh Hasina in Bangladesh e portavano un velo tradizionale, non religioso. C’è da dire inoltre che le agenzie Onu, in quanto a rappresentatività, non fanno una figura migliore: da anni criticate per la scarsa presenza femminile in ruoli dirigenziali e nelle posizioni diplomatiche chiave, solo di recente sono stati fatti sforzi concreti per raggiungere la parità di genere negli organi decisionali. Di una Segretaria generale, poi, nemmeno l’ombra. Il post dell’agenzia si conclude con l’hashtag #ForAllWomenAndGirls, per tutte le donne e le ragazze. “Tutte” eccezion fatta per quelle abusate o finite nella rete dello sfruttamento sessuale perpetrato dai caschi blu in missione in Repubblica democratica del Congo, per esempio, o ad Haiti; o quelle in Afghanistan, dove dei programmi Onu per l’istruzione femminile si può raccontare solo l’inefficacia; o quelle stuprate nel pogrom del 7 ottobre. Nonostante il rapporto dell’Onu del marzo 2024, che ha rilevato il ricorso sistematico alla violenza sessuale durante gli attacchi, e nonostante a luglio il Consiglio di Sicurezza abbia inserito Hamas nella lista delle organizzazioni “sospettate in modo credibile” di violenza sessuale nelle zone di guerra, a New York nessuno ha mai alzato la voce per le israeliane.
Anzi. La relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne e le ragazze, la giordana Reem Alsalem, aveva liquidato come “disinformazione” le notizie di stupri e abusi sessuali sulle donne da parte dei terroristi. E l’agenzia dell’Onu contro la violenza sessuale nei conflitti lo scorso luglio ha parlato delle sopravvissute degli stupri di guerra: ci sono il Congo e il Sudan, c’è Haiti e ci sono le yazide. Neanche una riga per le sopravvissute ai massacri del Nova Festival e dei kibbutz Re’im, Nir Oz e Kfar Aza. Un Women, l’agenzia che mette una donna con il niqab come modello di leadership femminile, è anche la stessa a denunciare che soltanto in 27 Paesi al mondo ci sono donne alla guida. Come sempre fanno le donne, conquistandosela da sole.