Non dico peggio di Nicolas Sarkozy, col quale ha in qualche modo solidarizzato ricevendolo all’Eliseo in visita di commiato, alla vigilia della disavventura carceraria, e non più soltanto giudiziaria, ma il presidente francese Emmanuel Macron sta vivendo poco gloriosamente la fine del bonapartismo nel quale anche lui, come Sarkozy, aveva voluto avvolgersi nell’esercizio delle sue funzioni in ben due mandati.
In un sistema ridotto come neppure la cosiddetta prima Repubblica italiana era riuscita con i suoi tanti, troppi governi che si succedevano, ad un Macron costretto a produrne ancora di più erano ormai rimasti di Napoleone solo i gioielli custoditi al museo del Louvre. Così mal custoditi che quattro ladri in soli sette minuti, se non ancora meno, sono riusciti a portarne via un bel po’. Ladri anch’essi così poco o male bonapartisti da perderne alcuni per strada fuggendo in motorino dopo avere scalato il museo in un montacarichi. O, com’è apparso al pubblico televisivo, su una scala di pompieri.
Noi italiani, i cugini, pur debitori dei francesi per l’aiuto fornitoci a suo tempo a realizzare l’unità nazionale, ci stiamo prendendo qualche soddisfazione, diciamo pure la verità. Non per cattiveria, perché a dispetto dell’odio nel quale si svolge il cosiddetto dibattito politico interno conserviamo ancora all’estero l’immagine di “brava gente”, col cuore aperto e generoso. Non per cattiveria, dicevo, ma per rivincita su una serie di torti ricevuti, almeno da quella risatina sferzante di Sarkozy, accanto all’allora cancelleria tedesca Angela Merkel, nei riguardi del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Che già aveva problemi con i suoi oppositori interni e francamente non aveva bisogno di riceverne pure da soci europei e alleati atlantici. Persino all’opposizione qualcuno avvertì il bisogno, come il senatore ed ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, di eccepire sul comportamento franco-tedesco.
Poi è toccato ad un altro governo di centrodestra, a quello in carica presieduto da tre anni da Giorgia Meloni, di ricevere da Macron o lezioni non dovute o strappi da concorrenza, diciamo così, sulla strada della costruzione di nuovi equilibri all’interno dell’Unione Europea, in un contesto peraltro di cambiamenti a livello mondiale. Ma l’uomo dell’Eliseo ha trovato stavolta pane per i suoi denti, come si dice.
E finirà il suo mandato un po’ desolatamente, mentre la Meloni lo concluderà con la prospettiva realistica, diventata ossessiva per gli aspiranti all’alternativa, di raddoppiarlo, se non addirittura di doverlo interrompere dopo due anni per salire al Quirinale. Dove la spingono i suoi stessi avversari immaginandone l’arrivo con una demonizzazione già risultata propiziatrice tre anni fa alla leader della destra nelle elezioni politiche.
«Bella», l’ha recentemente definita il presidente americano Donald Trump facendo andare di traverso certe trasmissioni televisive ai loro conduttori e ospiti. Anche fortunata, aggiungerei della Meloni per avere degli avversari che lavorano per lei ancor più dei suoi alleati. Già Napoleone, del resto, per scomodarlo meno rovinosamente dei bonapartisti a Parigi, preferita i generali fortunati a quelli bravi.