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L’Africa non ha scordato il passo storico fatto dal Cav

Il Trattato di Bengasi resta l’unico esempio di intesa postcoloniale e un modello per riformare la convenzione sulle mine antiuomo
di Giovanni Longoni lunedì 17 novembre 2025

5' di lettura

Le mine antiuomo possono passare per un problema legato a conflitti lontani dalla nostra realtà, qualcosa che riguarda oggi l’Ucraina e un tempo la Yugoslavia oppure le guerre nei Paesi del terzo mondo. La realtà è un po’ diversa e tocca da vicino noi europei occidentali. Ad esempio, è la Francia che ha lasciato dietro di sé 11 milioni di questi ordigni inesplosi in Algeria e un altro milione in Tunisia. Nelle guerre di decolonizzazione le mine antiuomo sono state ampiamente utilizzate dalle potenze europee per fare terra bruciata attorno alla guerriglia indipendentista. Parigi da questo punto di vista, è imbattibile. Non solo ha disseminato di bombe dormienti il Nordafrica ma neppure ha mai acconsentito a fornire le mappe dei campi minati e meno ancora a collaborare economicamente alle ingenti spese per lo sminamento. La République però è in buona compagnia: il Portogallo ha fatto altrettanto con le ex colonie Mozambico e Angola. E noi, italiani brava gente?

Non ci siamo fatti mancare nulla: soprattutto in Libia abbiamo minato il deserto, per contrastare l’avanzata dell’Ottava armata di Montgomery dopo El Alamein ma anche per stroncare le tribù beduine perennemente in rivolta. C’è però un aspetto della questione che distingue l’Italia dalle altre ex potenze coloniali. Siamo gli unici ad avere fatto passi concreti per rimediare alla situazione. E l’Africa ne è cosciente. Sadeeq Garba Shehu, del National Humanitarian Mine Action Committee nigeriano, ha presentato proprio l’Italia come modello alla recente conferenza dedicata al futuro della convenzione internazionale di Ottawa sulle mine antiuomo che si è tenuta a Zagabria il 10 el’11 novembre scorsi, organizzata da “Kharkiv con voi”, ong ucraina, da Altner Consulting group e dall’IMEF di Sofia, Bulgaria. Presenti esperti di sminamento, alcuni rimasti menomati dalle esplosioni, e politici dei Paesi maggiormente colpiti, fra i quali Luca Bebic, ex ministro della difesa croato, Anna Skorohod (membro del parlamento ucraino) e Yuri Hudimenko (del partito Democratychna Sokyra).

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Ex ufficiale dell’aviazione da guerra nigeriana e oggi esperto di sicurezza, Sadeeq Garba Shehu ha citato il trattato di Bengasi, firmato nel 2008 dall’ultimo governo Berlusconi e dal regime di Gheddafi, che tra i suoi aspetti meno pubblicizzati da noi ma essenziali dal punto di vista africano aveva proprio la questione delle mine. L’Italia è a oggi l’unica ex potenza coloniale ad essersi assunta la responsabilità dei massacri legati alla occupazione, ed è anche la sola ad avere offerto trasparenza e collaborazione per le opere di sminamento. In cambio Tripoli aveva offerto il suo gas naturale, il controllo dei flussi migratori e la collaborazione economica con le nostre ditte per la costruzione di autostrade e altre moderne infrastrutture sulla sponda sud del Mediterraneo. La maggior parte dell’accordo è rimasta sulla carta in seguito all’attacco occidentale del 2011 che portò alla fine del Colonnello. In teoria il trattato è ancora in vigore e i governi italiani che si sono succeduti finora, di sinistra e di destra, si sono mossi nel solco diplomatico tracciato dal Cavaliere: dal famigerato Memorandum di intesa del 2017 del duo Gentiloni-Minniti fino ai tentativi da parte del governo Meloni di favorire il dialogo fra i due centri di potere contrapposti in Libia, Tripoli e Bengasi. Comunque sia, nell’ottica più ampia del Piano Mattei, non sfuggirà l’importanza del fatto che le élite del continente nero vedano nella mossa di Silvio un possibile modello per i rapporti futuri con l’intera Europa. La Libia ovviamente era in una posizione privilegiata: era (è) ricchissima e aveva molto da darci. Diversa la situazione del resto dell’Africa: a un’Algeria ricca, a una Mauritania potenzialmente ricchissima si contrappongono Paesi dalle risorse più modeste come la Tunisia e altri ancora più miseri.

Da qui l’idea africana di riformare la convenzione di Ottawa per costringere gli ex colonialisti a pagare per le mine che si sono lasciate dietro. La Convenzione di Ottawa è stata varata il 3 dicembre 1997 e vieta ai paesi firmatari l’uso, la produzione, lo stoccaggio e il trasferimento delle mine antiuomo, imponendone anche la distruzione. Tre sono le posizioni emerse dagli incontri di Zagabria. C’è chi vorrebbe “più Ottawa”, vale a dire applicare il bando alle mine così come è (o con modifiche per rendere gli ex paesi colonialisti responsabili delle loro azioni), e si tratta principalmente della volontà di Paesi africani che sono pieni di ordigni inesplosi però mancano delle risorse economiche per le costose operazioni di bonifica del terreno. C’è poi chi vuole “meno Ottawa” e si tratta dei Paesi Nato vicini di casa di Russia e Bielorussia che hanno annunciato nel corso di quest’anno l’intenzione di uscire dagli accordi per poter fronteggiare ad armi pari la minaccia russa. Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia e Finlandia, la prima linea difensiva dell’Alleanza Atlantica. Infine c’è chi propone di “cambiare Ottawa”, per restare dentro il trattato (o per entrarci) ma senza concedere vantaggi tattici a un nemico che il trattato non lo ha firmato né ha intenzione di farlo (Mosca e Pechino, per esempio). Quest’ultima posizione accomuna Ucraina (firmataria) e Azerbaijan (non firmatario) la prima in stato di guerra il secondo che non si fida troppo dell’avversario sconfitto, l’Armenia (non firmataria).

Boris Nemirovskij (giornalista ucraino oggi attivo in Germania) ha riassunto la situazione attuale: nel 1997 la firma degli accordi di Ottawa fu l’apice dell’idealismo post guerra fredda, erano gli ultimi anni del clintonismo, della “fine della storia”, del trionfo dell’idea di un mondo unificato sotto la legge internazionale fatta eseguire dal gendarme mondiale e unico superpotenza rimasta, gli Stati Uniti. Oggi l’uscita dal Trattato di Polonia Paesi baltici e Finlandia sotto la pressione russa è l’indice che viviamo in un tempo completamente diverso, un tempo di guerra. Reale o potenziale. «La sfida principale all’efficacia del Trattato», spiega Nemirovsky, «risiede nelle nuove tecnologie e nelle nuove tipologie di ordigni». Il problema non è tanto dato dalle mine di nuova generazione (“intelligenti”, dotate di sensori e capacità di controllo da remoto) quanto dall’apparizione di esplosivi che hanno impieghi tattici ed effetti paragonabili a quelli delle mine classiche, nascoste nel terreno, ma funzionano in modo totalmente differente. Sono comparse “mine volanti”, droni esplosivi, submunizioni a grappolo, mine a innesco selettivo. «La definizione classica di mina antiuomo contenuta nella Convenzione», avverte Nemirovsky, «non le contempla». Da qui l’importanza della proposta avanzata dalla Germania di rivedere la definizione giuridica di «mina», primo passo verso ogni riforma della Convenzione di Ottawa.

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