La storia non si ripete e non è maestra di vita, ma è la chiave di lettura del presente. Il piano di pace in 28 punti fatto filtrare da Donald Trump per chiudere il conflitto tra Russia e Ucraina, che sembra accogliere i desideri di Vladimir Putin con i crismi del diritto internazionale, non è la riproposizione di Monaco 1938, eppure quello spettro aleggia nonostante profonde differenze sostanziali e formali. Il Donbass come i Sudeti? I territori abitati da secoli dai tedeschi (accolti dai re di Boemia) allora erano rivendicati da Adolf Hitler, che per essi era disposto a scatenare una guerra, mentre gli oblast russofoni sono già conquistati manu militari da Putin e non riconquistabili da Zelensky.
Si tratta quindi di sancire uno stato di fatto, non riequilibrabile senza un conflitto su grande scala che nessuno vuole; così come nel settembre 1938 l’opinione pubblica e le cancellerie non volevano un’altra ecatombe in Europa e per questo erano disposte a sacrificare anche la dignità. La Repubblica cecoslovacca invece voleva battersi, confidava sulla modernità del proprio esercito (le divisioni di fanteria avevano il più alto volume di fuoco di ogni altra forza armata continentale), sulle ottime dotazioni di artiglierie e armi leggere prodotte dalla sua industria all’avanguardia, sulla determinazione a non cedere alle amputazioni territoriali. E soprattutto confidava sulla formidabile corona difensiva di fortificazioni e bunker a protezione delle frontiere, realizzata in tempi record per quanto non ultimata. Ma tutto si trovava nei Sudeti: Hitler, prendendoseli, disinnescava completamente la Cecoslovacchia e ne faceva una preda pronta a cadere nelle sue mani al momento opportuno, come avverrà nel marzo 1939. A Monaco la Cecoslovacchia non venne neppure ammessa a partecipare. L’accordo a sue spese venne deciso da Mussolini e Hitler, con la complicità interessata di Francia e Gran Bretagna e le firme di Édouard Daladier e Neville Chamberlain, che così si sottraevano pure agli obblighi di assistenza militare a Praga e alla necessità di fermare in qualche modo la politica aggressiva del Führer. Il 29 e il 30 settembre si toccò il punto più basso della politica internazionale e dell’appeasement.
Nessuno parlò di dover fermare il nazismo, ma solo di aver salvato la pace, facendone però pagare il prezzo a chi confidava su solidarietà, supporto e assistenza. Nessuno voleva morire per i Sudeti come nessuno vorrà morire per Danzica, quando ormai era troppo tardi per impedire la catastrofe. Nel caso di Crimea e Donbass la catastrofe è iniziata tre anni fa e si è consolidata nel punto di irreversibilità della conquista russa. Per superare l’impasse la parola è passata all’imposizione di una pace calata dall’alto come sempre si è fatto, trattando con il vincitore come sempre si è fatto, scavalcando chi perde come spesso si è fatto. Si chiama Realpolitik, che è quella che spazza via le cortine fumogene delle illusioni diplomatiche e dei principi morali inesistenti: Putin non sta denazificando l’Ucraina, l’Ucraina non combatte per difendere l’Europa ma perla sua sopravvivenza. I 28 punti ufficiosi del piano di pace, magari persino negoziabili in alcuni aspetti comunque marginali e non sostanziali, sono quelli di una resa: riconoscimento dell’uti possidetis, disarmo con qualche garanzia, divieto di allargamento della Nato. Quello che è in controluce è il cambio di regime a Kiev, la scomparsa di Zelensky dalla scena politica e forse pure dall’Ucraina, un controllo a distanza dal Cremlino.
Il primo effetto collaterale è il brusco ridimensionamento dell’Europa, nano politico e convitato di pietra sul teatro internazionale, e anche il principio che le sanzioni siano contromosse efficaci alle crisi sfociate in confronto bellico. L’Ucraina è stata foraggiata di armi impedendole di usarle fuori dai confini nazionali, mentre quei confini venivano continuamente erosi, e illusa di poter resistere a un’invasione voluta da un nemico che, secondo la peggior tradizione russa dai tempi degli zara quella dell’Unione Sovietica, non teneva il conto delle proprie perdite ma solo quello degli obiettivi raggiunti. Il conto che Putin presenta all’Ucraina è salato e doloroso, ma la contropartita del prolungamento del conflitto è il totale tracollo militare e politico di chi è stato costretto solo a difendersi. Onore a chi ha perso, ma questo non cambia il fatto che abbia perso, e il piano non fa altro che sancirlo nero su bianco. Monaco 1938 è stata una vergogna per prevenire la guerra, mentre la fine di questa guerra è una necessità per l’Ucraina per continuare a esistere.




