L’effetto Cavo Dragone è arrivato: Vladimir Putin ieri ha commentato la sortita del loquace ammiraglio sugli «attacchi preventivi» della Nato alla Russia con un colpo d’ascia: «L’Europa vuole la guerra? Siamo pronti». In questa frase c’è tutto Putin, il gioco di fumo e specchi dell’aggressore: da 3 anni e 9 mesi l’avanzata dell’esercito di Mosca ha il record storico della lentezza in guerra, secondo il Centro di Studi Strategici di Washington «in aree come Kharkiv in media avanza solo 50 metri al giorno, più lentamente rispetto all’offensiva della Somme nella Prima guerra mondiale, dove le forze francesi e britanniche avanzarono in media 80 metri al giorno» e anche nel Donetsk i russi guadagnano solo 135 metri al giorno. Il generale inverno congelerà tutto, non la strage. Della dottrina della vecchia Armata Rossa sono rimasti il sacrificio enorme di uomini e la mancanza di disciplina sul campo di battaglia, ma sono bastati a Putin per condurre una sanguinosa guerra di logoramento che si traduce in una serie di battaglie con un altissimo numero di vittime, distruzione di mezzi e un limitato movimento della linea del fronte. La guerra è un non -finito massacro che va avanti da 1348 giorni con oltre un milione di perdite dei russi, di cui i morti sono più di 250mila. Putin non sta vincendo, ma la traduzione dei numeri del campo di battaglia dice che la Russia non può perdere e l’Ucraina non può vincere.
È una trappola strategica che l’Europa non riesce a risolvere e gli Stati Uniti vorrebbero scardinare. Lo stallo nasce dalla strategia scelta dalla Casa Bianca durante la presidenza di Joe Biden, all’inizio dell’invasione: ti armo abbastanza da non perdere, ma non quanto servirebbe per vincere. L’amministrazione Trump (che per primo fornì all’Ucraina l’arma anti-carro Javelin, fondamentale per respingere il primo assalto dei russi che puntavano su Kiev) ha continuato su questa linea, ma la pressione del Congresso sui finanziamenti e l’obiettivo di contenere la Cina nel Pacifico hanno innescato l’iniziativa diplomatica di Trump che vuole chiudere la guerra, mentre Zelensky a Kiev, scosso dalle inchieste sulla corruzione, cerca di trovare un punto di caduta che non sia una resa. In questo scenario, Putin dovrebbe negoziare per evitare un’improvvisa crisi interna (come accadde per la campagna militare dell’Unione Sovietica in Afghanistan nel 1989), trattare nuove sfere di influenza con gli Stati Uniti (e la Cina che osserva all’ombra della Grande Muraglia) e definire un quadro di sicurezza sul fianco orientale dell’Europa, ma senza abbandonare i territori occupati.
Putin fa affidamento sul non-detto di questa guerra: la deterrenza dell’arma nucleare. L’uomo del Cremlino sa che la minaccia della Bomba funziona, ma riconosce che si tratterebbe di un conflitto dove «non vince nessuno» (sono parole sue). È un punto di partenza di qualsiasi negoziato, anche Mosca sa che i codici della valigetta nucleare sono la fine della storia, non l’inizio. La Russia è un memento, prima di tutto per gli Stati Uniti. Chi ha visto il bellissimo film “Oppenheimer” di Christopher Nolan e l’intenso e ambiguo “A House of Dynamite” di Kathryn Bigelow ha provato l’angoscia di uno scenario di guerra nucleare dove il “first strike”, il primo colpo (e quelli seguenti, fino alla distruzione totale), sono l’apertura delle porte dell’inferno. In un quadro di lanci multipli, stiamo parlando di milioni e milioni di vite spezzate.
Ecco perché quando si parla di «attacchi preventivi» alla Russia bisogna essere consapevoli di quello che si dice e dell’impatto che le parole hanno sullo scenario politico e sull’immaginario dei popoli. Sulla mia scrivania c’è la prima edizione del 1957 di un libro di Henry Kissinger intitolato «Armi nucleari e politica estera», è il suo primo eccezionale studio sullo scenario strategico della Bomba, un libro che svela il grande dilemma del nostro tempo: l’uso del «fuoco di Prometeo». La guerra in Ucraina è un fuoco che va spento prima che sia troppo tardi, prima che nel caos a qualcuno venga l’idea di schiacciare il pulsante del primo colpo.