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Se la ricetta di Prodi per l'Ue è la sudditanza italiana a Francia e Germania

di Corrado Ocone sabato 22 febbraio 2025

3' di lettura

Una cosa è certa: dopo il “ciclone Trump” niente sarà più come prima, a cominciare dall’Europa. Inutile girarci attorno: l’Ue come l’abbiamo conosciuta non ci sarà più e né potrà più esserci. È un bene o un male? Forse il modo migliore per rispondere alla domanda è chiedersi come abbia funzionato finora. E chi può rispondere meglio di Romano Prodi, presidente della Commissione Europea dal 1999 al 2004, cioè negli anni cruciali dell’introduzione della moneta unica e dell’allargamento ad est? Convinto e acritico europeista ancora oggi, il vecchio leader non lesina occasioni per concedere interviste e dare bacchettate a destra e suggerimenti (probabilmente non richiesti) a sinistra. In un intervento a Piazza Pulita su La7, ci ha fatto sapere ad esempio che per dare una voce unica e credibilità all’Europa, «ci deve essere un accordo tra Francia e Germania, con dietro l’Italia» perché «questo ha funzionato in passato». Con queste parole, in un colpo solo, forse senza accorgersene, Prodi ha affossato tutta la retorica costruita negli anni sulla pari dignità degli Stati componenti l’Unione, ha fatto cioè cadere il velo di ipocrisia che ci ha coperto gli occhi. Che a trainare l’Europa fosse il cosiddetto “motore franco-tedesco” era chiaro un po’ tutti, ma che all’Italia toccasse il ruolo di accodarsi sempre, a prescindere, lo avevamo sì intuito ma nessuno fra gli artefici della nostra politica estera aveva mai avuto il coraggio di dircelo. La “doppia verità” è stata infatti la cifra costante dell’approccio della nostra classe dirigente ai fatti europei. Essa ha visto convergere, nel corso degli anni, forze politiche diverse: dai “cattolici adulti”, cioè progressisti, come Prodi agli ex o post comunisti in cerca di surrogati a buon mercato alla vecchia fede perduta; sino ai tanti politici e tecnici di formazione azionista che hanno considerato il “vincolo esterno” come un elemento necessario per “educarci” a una “moralità pubblica” che in quanto italiani non avevamo.

Quanti danni ci abbia causato questa sudditanza ai franco-tedeschi, storici ed economisti lo hanno già abbondantemente documentato e non è qui il caso di ritornarci. Riproporla oggi significherebbe non solo perseverare in un vecchio errore ma anche precluderci ogni possibilità di conquistare come italiani un ruolo nel nuovo mondo che andrà configurandosi. È pura illusione credere che l’America sia invidiosa di noi perché siamo la loro «unica grande concorrente economica», come pure ha detto Prodi a La7. Già solo pensarlo significa essere scollegati dal mondo reale. Forse lo eravamo un tempo, ma oggi la realtà è tutt’altra: siamo in discesa libera e, non avendo in questi anni innovato ma solo regolamentato, le previsioni per il futuro sono a dir poco drammatiche. Il che rende evidente che, in un’Europa in situazione di debolezza strutturale e con Francia e Germania pronte a dividersi le poche risorse restanti, all’Italia toccherebbero solo misere briciole.

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È il momento perciò di cambiare atteggiamento: il nostro Paese deve pensare prima di tutto a se stesso, sviluppando tutte le sue potenzialità, collaborando con gli altri Paesi europei ma con pari dignità e non accettando misure che la penalizzano in nome di un’ideologia che è fallita. D’altronde, è quel che Francia e Germania già fanno. Quanto al processo di integrazione europea, esso va ripensato e posto su più solide basi. E forse, anche da questo lato, l’Italia può oggi dare un apporto determinante.

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