Il Consiglio d’Europa non sa dove sia Barriera di Milano e forse non lo sanno nemmeno molte altre persone che durante i telegiornali sono rimaste scioccate dalle immagini di violenza che arrivavano da lì. Ma le forze dell’ordine lo sanno benissimo dov’è e cos’è diventata Barriera di Milano, che a dispetto del nome è nella periferia di Torino.
Nelle centrali operative si sa che questa zona che segna una delle porte d’accesso verso il capoluogo piemontese oggi è considerata ad altissima pericolosità sociale per le risse fra bande di immigrati e per le violenze compiute per lo più da stranieri verso gli italiani. Residenti e commercianti non ne possono più delle angherie di queste bande. Non c’è pregiudizio etnico nell’alzare la voce per quel che accade, dal momento che in quelle zone si stabilirono i migranti che dal sud cercavano lavoro in Fiat. Poi le migrazioni hanno progressivamente cambiato i connotati e come tutti i grandi centri urbani gli immigrati sono diventati stranieri.
Nessun trattato di sociologia saprà darci la mappa esatta dei cambiamenti avvenuti in Italia negli ultimi decenni più di un giro con le pattuglie e le volanti dei poliziotti: un po’ perché anche loro sono figli del pendolarismo sud-nord, un po’ perché a furia di fare turni di giorno e di notte l’occhio si abitua ai cambiamenti. Ai profondi cambiamenti.
E i cambiamenti dicono quel che è accaduto l’altra sera in Barriera di Milano, dove tre uomini di origine peruviana armati di coltelli e un bastone chiodato si sono presi a botte con altri tre connazionali. Scene di violenza estrema, con colpi che hanno sfigurato gli aggrediti, urla, inseguimenti con le macchine, insomma qualcosa di terribile. Se non fosse che non è la prima volta che accade. Vero. Lo sanno bene i poliziotti e i carabinieri che in quelle periferie agiscono da anni. A Torino come a Milano, a Roma come a Padova, a Firenze come a Bari. Ogni città ha il suo pezzo di cronaca da raccontare e se i dati sulla sicurezza sono in netto miglioramento, non c’è dubbio che la paura tra i cittadini sia aumentata perché sono le dinamiche delle risse e delle violenze ad essere peggiorate.
Gente che in strada si presenta con le catene o con i machete, bande di stranieri che si confrontano per gestire racket di ogni tipo. Non c’è rispetto nemmeno per gli anziani. E le nostre forze dell’ordine lì, i nostri ragazzi lì a gestire, a controllare e a intervenire. Magari con qualche signorino dei centri sociali o delle sinistre radicali che registra con i telefonini e commenta contro.
Per non dire di questi ragazzini “maranza” che ormai hanno capito come funziona il gioco e fanno bella mostra davanti a taccuini e telecamere per dire che «la polizia ce l’ha con noi». Tutti agnellini. Scappano ai posti di blocco perché la colpa è della polizia, anzi dei pregiudizi degli agenti che per loro restano il nemico. La verità è che i nostri agenti sarebbero da premiare con incentivi in busta paga perché quel che fanno non ha prezzo. A maggior ragione se poi, in un giorno di fine maggio, arriva una di queste organizzazioni internazionali di anime belle, ben pagate per stare dietro una scrivania a redigere rapporti, e dice che i nostri agenti di polizia sono un po’ razzisti. Ecco, era proprio la scusa che cercavano i teppisti e delinquenti per ingaggiare la loro battaglia contro donne e uomini in divisa. Che cosa faccia il Consiglio d’Europa non lo sa nessuno; cosa facciano polizia e carabinieri lo sappiamo benissimo da decenni: hanno combattuto contro il terrorismo, combattono contro le mafie, pattugliano ogni giorno in strada, garantiscono la sicurezza quando i potenti del mondo si concentrano in una sola città, Roma, per salutare o omaggiare il Papa. Ecco chi sono i nostri poliziotti.