Va bene: Trump sarà pure un tipo particolare, un interlocutore imprevedibile, a volte affabile e altre volte ispido. Gli anglofoni, quando una persona o una situazione portano con sé un certo tasso di rischio, usano l’aggettivo “challenging”, che potremmo tradurre in brutto italiano con la parola “sfidante”, nel senso di “tale da determinare una sfida”. E non c’è dubbio su questo: Trump e il trumpismo ci mettono alla prova. Su tutto, il suo metodo è bastone e carota, pistola sul tavolo e poi stretta di mano, prima uno schiaffo e dopo una carezza, prima una minaccia e poi una buona intesa. Ma - appunto - pur con queste modalità particolari e a volte spiazzanti, anche un bambino capisce che Trump, sulla faccenda dei dazi, vuole trattare. Negoziare. Accordarsi. Chi scrive - vecchie fisime liberali, forse- non amai dazi, e meno che mai i controdazi. E meno ancora l’ipocrisia di chi, a Bruxelles, ha eretto per anni barriere di ogni tipo contro il commercio, tariffarie e non, e adesso si straccia le vesti per le mosse della Casa Bianca.
Ma - comunque la si pensi in termini di teoria economica – resta il fatto che Trump cerca intese, insegue un deal dopo l’altro, come dimostra - da ultimo - lo spostamento in avanti fino a luglio (negoziato con Ursula von der Leyen) del termine temporale per un accordo con l’Ue. E allora ci sono solo due atteggiamenti possibili. Il primo assurdo - è quello di continuare a far volteggiare nell’aria le parole “bazooka”, “vendetta” e simili, tirando ulteriormente la corda. Il secondo - ragionevole - è quello di favorire e facilitare la trattativa.Il governo italiano si sta spendendo positivamente perla seconda alternativa. Che ha già premiato - fuori dall’Ue - un governo di segno politico opposto come l’esecutivo britannico. Bene o male, infatti, Starmer e Trump hanno realizzato pochi giorni fa un discreto accordo. Non si capisce per quale ragione allo stesso obiettivo non possa puntare anche l’Ue. E invece non manca una pattuglia di rinfocolatori, di piromani, di gente che cerca di appiccare incendi.
Una decina di giorni fa, il documento Macron-Merz conteneva una parte apertamente provocatoria verso gli Usa (“garantire risposte decise ad azioni avverse che colpiscano l’Europa”), in palese contrasto con i toni ultraconcilianti del testo franco-tedesco verso Pechino. Quindi, una carezza ai cinesi e una gomitata in faccia agli americani: il che non sembra un buon modo di porsi rispetto a un tipo come Trump. E la scorsa settimana Bruxelles ha addirittura rincarato la dose, minacciando – in caso di mancato accordo – l’imposizione di tariffe aggiuntive sulle importazioni dagli Usa, mettendo nel mirino migliaia di beni di tutti i tipi (auto, aerei, moto, alcoolici, elettrodomestici, prodotti agricoli). Esattamente il contrario di una tattica negoziale conciliante nel metodo e liberale nel merito: in quest’ultimo caso, si sarebbero spazzati via i propri dazi e le proprie barriere, per indurre la controparte a fare altrettanto.
E invece no: si minaccia di fare ancora peggio, innescando una specie di escalation. E, per rendere l’operazione ancora più surreale, nel mega-elenco diffuso dalla Commissione Ue dei prodotti che potrebbero essere oggetto di ritorsione sono stati inseriti pure gli smartphone: un dito nell’occhio degli Usa e un altro nell’occhio dei consumatori europei. Ma il masochismo bruxellese è qualcosa di inimmaginabile: nell’elencone sono stati inseriti anche vino e whisky americani. Piccolo dettaglio: l’Ue importa alcool dagli Usa per appena 300 milioni di euro l’anno, mentre esportiamo lì beni dello stesso tipo per un valore di 5 miliardi l’anno (di cui circa 2 dall’Italia). Ha senso imbarcarsi in una guerra in cui chi ha così tanto da perdere siamo noi?