La Corte di Giustizia Ue ha stabilito che gli Stati membri hanno l’obbligo di riconoscere un matrimonio tra due cittadini dell’Unione dello stesso sesso legalmente contratto in un altro Paese Ue, qualora la coppia abbia esercitato la propria libertà di circolazione e soggiorno. La sentenza, che nasce da un caso riguardante due cittadini polacchi sposati in Germania, rappresenta un nuovo e significativo tassello nella giurisprudenza europea sui diritti delle coppie Lgbtq+.
I due uomini avevano chiesto alle autorità polacche la trascrizione del certificato di matrimonio nei registri civili, così da ottenere il riconoscimento del loro status coniugale anche al rientro in patria. Richiesta respinta, poiché la legge polacca non prevede il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo ha portato alla decisione diffusa oggi: negare tale trascrizione costituisce una violazione sia della libertà di circolazione e soggiorno garantita ai cittadini europei, sia del diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Pur ribadendo che la disciplina del matrimonio resta competenza degli Stati membri, la Corte precisa che, una volta che una coppia ha contratto legalmente matrimonio in un altro Paese dell’Unione, gli Stati devono riconoscere quello status “ai fini dell’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione”. In sostanza, chi ha costruito una vita familiare in uno Stato membro deve poterla continuare, senza interruzioni o negazioni, nel proprio Paese d’origine.
La sentenza ha innescato un'immediata ondata di reazioni politiche in Italia. La prima di queste arriva dal fronte più critico. Pro Vita & Famiglia Onlus esprime “un fermo giudizio negativo”, sostenendo che la decisione di Lussemburgo “scardina gli ordinamenti nazionali” e tenta di imporre “un modello ideologico di famiglia”. Il presidente Antonio Brandi sottolinea tuttavia che la sentenza non obbliga gli Stati a introdurre il matrimonio egualitario nei codici civili, ma impone soltanto un “riconoscimento burocratico” necessario per garantire diritti di circolazione e soggiorno. In Italia, osserva, ciò avviene già “tramite l’automatico declassamento” dei matrimoni tra persone dello stesso sesso ad unioni civili.
Critica anche la posizione di Fratelli d’Italia. L’eurodeputato Paolo Inselvini parla di “sconcerto” e avverte che la pronuncia rischia di forzare la mano agli ordinamenti nazionali su un tema – la famiglia – che i Trattati attribuiscono agli Stati. “Siamo a un passo dal dover approvare qualsiasi pratica legalizzata all’estero”, afferma. A suo giudizio, ogni Paese ha diritto di tutelare il proprio modello civile: “In Italia, la famiglia è fondata sull’unione tra un uomo e una donna, scelta radicata nella realtà e nel nostro quadro normativo”.
Di segno opposto le reazioni dell’area progressista. Per Alessandro Zan (Pd) la sentenza “abbatte un altro paletto”: le famiglie omosessuali, dice, devono poter esistere ovunque in Europa. È una decisione che “sferza i governi che fanno guerra alle persone Lgbtqia+” e che dovrebbe spingere l’Italia ad approvare il matrimonio egualitario, unica strada per “garantire davvero l’uguaglianza fra le coppie”.
Soddisfatto anche Ivan Scalfarotto, senatore di Italia Viva, che parla su X di un principio “semplice e universale”: se i cittadini europei possono muoversi liberamente, devono poterlo fare insieme ai loro coniugi. Ricorda che l’Italia resta l’unico Paese dell’Europa occidentale a non aver ancora riconosciuto il matrimonio tra persone dello stesso sesso e invita il Parlamento a colmare il divario, approvando il suo disegno di legge in materia “magari con un voto bipartisan”.