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Ecco un altro passo verso il pensiero unico. Diranno sì pure alla poligamia?

La decisione della Corte di giustizia continentale, nel rispondere a una questione pregiudiziale di due gay polacchi, è sbagliata nel metodo e nel merito. Tra le altre cose segnala la persistenza di una delle maggiori criticità oggi presenti nell’Ue, almeno in un’ottica liberale
di Corrado Ocone mercoledì 26 novembre 2025

3' di lettura

È l’Europa che non ci piace quella che si è manifestata alla Corte di giustizia continentale. Nel rispondere a una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale a proposito del caso, risalente al 2018, di due gay polacchi che avevano contratto matrimonio in Germania, gli alti giudici hanno stabilito che «uno Stato membro ha l’obbligo di riconoscere un matrimonio tra due cittadini dell’Unione dello stesso sesso che è stato legalmente contratto in un altro Stato membro in cui hanno esercitato la loro libertà di circolazione e di soggiorno». Si tratta di una decisione sbagliata nel metodo e nel merito. Nel primo caso, segnala la persistenza di una delle maggiori criticità oggi presenti nell’Ue, almeno in un’ottica liberale. Essa tende infatti a mortificare quelle diversità su cui si è costruito e fortificato nei secoli il nostro continente come “terra delle libertà”. E per di più su un tema discusso e discutibile, su cui è lecito avere opinioni, e quindi sensibilità, differenti. Si cerca, detto altrimenti, di imporre per via legislativa una sorta di “pensiero unico” che è quanto di più tradisce l’essenza propria dell’Europa che può essere sintetizzata nell’espressione latina e pluribus unum («è dalla molteplicità che nasce l’unità»).

L’Ue, se vorrà avere un futuro, non deve uniformare, standardizzare, centralizzare, ma riconoscere e promuovere gli ordinamenti nazionali, le identità maturate nella storia che possono sì evolvere ma dal basso, per moto proprio, e non per decreto legislativo. Un’Europa che agisce in modo opposto finisce per scontentare i cittadini e fa appassire quel sentimento comune su cui solo possiamo trovare un’intesa fra popoli che per secoli si son combattuti. Se il sentimento europeistico più genuino si è affievolito nel tempo è proprio perché i cittadini si sono sempre più sentiti invasi nella loro sfera privata da un potere arcigno e lontano.
Gli eventi geopolitici dimostrano che c’è bisogno di un’Europa più forte e unita, ma in pochi e tutt’affatto diversi settori della vita pubblica, a cominciare dalla difesa comune e dal controllo dei confini. È come se, consapevole delle difficoltà che trova su questo terreno, l’Ue volesse cercare un surrogato nella pretesa di governare e lo stile di vita. La politica, quella vera, altra nobile invenzione europea, si fa così biopolitica e il diritto biodiritto.

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Passando al merito del pronunciamento, non si può non osservare come la Corte abbia compiuto una sorta di forzatura. Dopo aver ammesso che queste materie sono di competenza nazionale, essa si è richiamata ad un principio generale quale la libertà di movimento e soggiorno all’interno dell’Ue per giustificare la propria decisione: quando due cittadini «creano una vita familiare in uno Stato membro ospitante, in particolare in virtù del matrimonio, devono avere la certezza di poter proseguire tale vita familiare al momento del ritorno nel loro Stato membro di origine». Non vorremmo che dietro la decisione fosse all’opera quella mentalità progressista che, anche nel diritto, tende a presentarsi come l’unica accettabile: le possibili derive ci sembrano davvero dietro l’angolo. Ragionando in via forse non del tutto ipotetica, se uno Stato europeo approvasse in futuro la poligamia islamica, la Corte darebbe il via anche a quello? Urge che la politica si faccia sentire e stabilisca con più chiarezza, anche a livello europeo, i giusti confini e limiti.

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