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Facci: l'ammette anche Borrelli, le manette servivano a far parlare la gente

Di Pietro al Corriere diceva di Raul: "Se l'avessi arrestato, non si sarebbe suicidato". Ma è una bufala, l'imprenditore sapeva già il suo destino. E ora anche l'ex capo di Tonino...
di Giulio Bucchi mercoledì 31 luglio 2013

Filippo Facci visto dal nostro Vasinca

4' di lettura

Vedi che gli articoli servono, le interviste servono, e incaponirsi attorno a fatti vecchi di vent’anni - il suicidio di Raul Gardini tra questi - serve a capire come andarono effettivamente le cose, che non è poco. Un’intervista all’avvocato Giovanni Maria Flick, sul Corriere di domenica, ha infatti confermato quanto aveva già scritto Libero la scorsa settimana a margine di un’ambigua e ingannatoria intervista di Antonio Di Pietro sempre al Corriere. Ed era ora: per vent’anni, infatti, soltanto quattro gatti hanno scritto e documentato che Gardini non temeva l’arresto: perché era praticamente già arrestato, tanto che l’ordine di custodia cautelare era firmato da tempo e gli pendeva sul cranio come una spada di Damocle, un mandato di «cottura» che il suicidio del manager Gabriele Cagliari, solo due giorni prima, gli aveva reso ancor più insopportabile.  Due domeniche fa, invece, Antonio Di Pietro se n’era uscito con un’intervista (Corriere del 21 luglio) in cui tentava nuovamente di indorare la favoletta che aveva già raccontato in libri e interviste: «Avevo dato la mia parola agli avvocati che Gardini sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe... Se l’avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi». Ma voleva arrestarlo o no? «Con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole». Insomma, un Di Pietro quasi garantista che lancia il sasso e nasconde la manetta. Ma due giorni dopo l’intervista, su queste pagine, raccontammo appunto com’era andata davvero. Anzitutto era stato lo stesso Di Pietro, nel 2000, a metterla in tutt’altro modo: «C’erano perquisizioni da eseguire, si rischiava di cominciare la sera e di finire a notte inoltrata, per cui decisi di rinviare tutto all’indomani». Rinviare, s’intende, un arresto che in realtà - nessuno lo ricorda mai - era già firmato e pronto dal 16 luglio: fu lì che Gardini comprese che non volevano interrogarlo, com’era stato concesso ad altri importanti finanzieri, bensì arrestarlo: ma con calma, lasciandolo cuocere sino evidentemente a bruciarsi.  E non è vero che Gardini sino alla sera prima fosse all’estero: lo sapeva mezza Italia che era lì, nel suo palazzo in Piazza Belgioioso, dove la sera prima del suicidio, peraltro, cenò pure con Vittorio Feltri. «La vera domanda», ha detto Giovanni Maria Flick, che era uno dei legali di Gardini, «era in quale carcere Di Pietro l’avrebbe mandato». Ai tempi, infatti, finire a San Vittore significava carcere duro (destinazione per chi non parlava, cioè non collaborava) mentre finire a Opera significava che la scarcerazione era imminente. E siccome «Gardini era terribilmente angosciato all’idea di non saper rispondere, spiegare, chiarire», ha ricordato Flick, temeva di finire a San Vittore «dopo la notizia del suicidio di Cagliari, che l’aveva molto provato». Ma Di Pietro, come detto, non aveva fretta. Meno interessante, in tal senso, la disputa su chi sia arrivato per primo sul luogo del suicidio: «Posso dire per certo di essere arrivato per primo, e Di Pietro non c’era» ha raccontato Flick smentendo Di Pietro. Il quale, giunto sul posto «abbastanza tardi» a memoria di Flick, reagì così: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino». A Gardini, in effetti, per farlo parlare, allungarono il pre-carcere. Si poteva farlo perché il clima era quello che era: Di Pietro, nelle ore appena successive al suicidio, mandò ad arrestare parenti e amici di Gardini  e il gip di Mani Pulite, Italo Ghitti, fu più che d’accordo: «Eccezionalmente», disse, «su quei provvedimenti ho indicato l’ora.  Le 9 del mattino. Pochi minuti dopo il dramma. Per testimoniare che, nonostante il dolore, la giustizia deve andare avanti». Più che la giustizia, gli arresti. Il vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, in un’intervista all’Unità, chiarì subito che «l’ordinamento è già molto garantista, i suicidi non devono far cambiare la legge». Tutto era possibile in quel 1993 e segnatamente a Milano, «procura nazionale anticorruzione», ricorda Flick, in cui il procuratore capo Borrelli, di fronte alle contestazioni sull’uso distorto della carcerazione, rispondeva così: «Noi li mettiamo fuori quando hanno parlato, dimostrando di aver interrotto il circuito affaristico illecito». Ed era così: il rito ambrosiano corrispondeva all’ottenere a tutti i costi delle confessioni che confortassero le tesi dell’accusa, e che i magistrati facessero corrispondere le confessioni a una «rottura col sistema» per motivare le scarcerazioni, come per i pentiti di mafia, non cambiava la sostanza: cioè che il metodo, medioevale, non funzionava né funziona per chi non ha nulla da dire o per chi, peggio, pur di uscire farebbe dichiarazioni anche false. E di confessioni-patacca e di storie molto parziali, nei fascicoli di Mani pulite, non ne sono mancate. di Filippo Facci @FilippoFacci1

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