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L'ora dei vigliacchi

Sembra di rivivere i primi anni 90: politica in crisi, tecnici al governo, crisi economica, istituzioni fragili. La situazione migliore per chi colpisce nell'ombra
di Giulio Bucchi domenica 20 maggio 2012

4' di lettura

Nella storia di questo Paese le stragi non hanno mai una firma. Da Portella della Ginestra in poi, da Piazza Fontana alla bomba sul treno di Natale, da Piazza della Loggia all’Italicus - ma potrei continuare con l’eccidio di via dei Georgofili  e quello di via Palestro - non c’è carneficina che sia stata rivendicata. A differenza degli agguati alle persone per i quali gli esecutori si affrettano a lasciare il volantino o a telefonare alle redazioni dei giornali, gli attentati con esplosivi collocati fra la gente sono tristemente famosi per non avere un nome cui addebitarli. Nel corso degli anni, per scovare i colpevoli, si sono inseguite tante piste: dalla strategia della tensione alle stragi di Stato, per finire con le stragi dell’antistato. I colpevoli sono però quasi sempre rimasti nell’ombra e anche quelle poche volte che si è capito da quale parte arrivassero i fantasmi che avevano collocato l’ordigno, la giustizia non è riuscita a condannarli e per le poche eccezioni - penso alla bomba nella stazione di Bologna - la sentenza ha prodotto più dubbi che certezze. Scrivo queste osservazioni pensando che l’attentato contro l’istituto professionale Morvillo Falcone di Brindisi, se possibile ha mandanti ed esecutori ancora più oscuri di quelli cui siamo abituati. Per quanto siano assurdi e criminali gli attentati del passato, per lo meno se ne intuiva la logica. Le bombe in una banca o durante una manifestazione sindacale, nella sala d’aspetto di una città simbolo o su un treno alla vigilia di una vacanza o di una festività, pur essendo parte di un piano folle, davano la sensazione di avere un obiettivo. La strage di ragazze al contrario, oltre ad essere atroce, appare totalmente incomprensibile. Come si dice in genere in questi casi, gli inquirenti battono tutte le piste: dall’atto terroristico di matrice mafiosa a quello con finalità politica. A sostegno della prima tesi vi sarebbe  l’artigianalità  dell’ordigno: tre bombole di gas comandate da un timer, collocate dentro un cassonetto dell’immondizia nei pressi dell’ingresso della scuola.  Ma anche il fatto che il vicino paese di Mesagne, comune dal quale arrivava Melissa - la ragazza morta - e le giovani rimaste ferite, è la Corleone della Sacra corona unita, l’organizzazione pugliese che per efferatezza corrisponde alla camorra napoletana, alla ’ndrangheta calabrese e alla mafia siciliana. Una reazione dopo l’arresto avvenuto la scorsa settimana di 43 esponenti della banda? Ma perché contro delle studentesse dello stesso paese? Se si tratta di una vendetta contro chi ha cantato e consentito di mettere dentro gli affiliati all’associazione mafiosa, perché colpire a casaccio? Non di più convince l’altra tesi, quella di un attentato degli anarchici. È vero che da Brindisi partono i traghetti per la Grecia e che oggi all’ombra del Partenone l’unica esportazione che tira è quella del terrorismo, basti pensare ai collegamenti tra l’attentato di Genova al manager dell’Ansaldo Nucleare e alcuni esponenti  dell’area insurrezionale con sede fra Atene e il Peloponneso. Tuttavia è difficile credere che i terroristi del Fai, dopo essersela presa con i dirigenti delle grandi aziende e con le banche, ora abbiano messo nel mirino gli studenti. Anche se a differenza dei brigatisti rossi questi anarchici non paiono molto intenzionati a far proseliti, come accadde nel passato è principalmente fra i ragazzi che può riscuotere  qualche simpatia e mettere una bomba fra di loro non è il modo migliore. Insomma, da qualunque parte la si guardi la strage delle bambine - a quindici o sedici anni si è ancora tali e si è ancora pieni di sogni e fantasie - è un orrore che non ha spiegazione,  al punto da apparire più opera di un pazzo che frutto di un disegno. Però la storia di questo Paese ci ha insegnato che anche ciò che è privo di senso, come un attentato, un senso alla fine ce  l’ha. È sufficiente ricordare la Fiat Fiorino imbottita di esplosivo fatta scoppiare fra gli Uffizi e l’Arno, a Firenze, proprio dove abitavano alcune famiglie. In via dei Georgofili  morirono una neonata e una bambina di nove anni, più altre tre persone; in 48 rimasero ferite. Si dice che mettendo una bomba sotto casa di gente normale la mafia volesse condizionare lo Stato e costringerlo a trattare, probabilmente a cedere sulle misure carcerarie nei confronti di alcuni boss.  Non so se ciò corrisponda a verità: come detto all’inizio, in Italia non c’è strage che porti una firma. Rispetto al passato, c’è però qualcosa che ricorre. Nel 1993, quando ci furono gli attentati  di via Fauro, dei Georgofili o di via Palestro, l’Italia era sull’orlo dal baratro. Tangentopoli aveva spazzato via la classe politica della prima Repubblica e il Paese era in crisi nera dal punto di vista politico ed economico. Per questo anche allora a  guidarlo fu chiamato un tecnico, l’ex governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, cui Oscar Luigi Scalfaro affidò l’incarico di formare il nuovo governo.  Le bombe cominciarono a esplodere di lì a poco e negli anni seguenti il presidente del Consiglio rivelò di aver creduto che si fosse a un passo dal golpe. Anche allora, come oggi, la debolezza dello Stato era palpabile e la sua fragilità evidente. Non voglio dire che ad alimentare il terrorismo sia l’assenza della politica o la mancanza di una guida forte: nel buio in cui siamo sarebbe un azzardo. Mi limito ad osservare che nei periodi in cui lo Stato è sfibrato, si fanno avanti gli assassini che colpiscono nell’ombra. L’ora della confusione infatti è sempre l’ora giusta per i vigliacchi.   di Maurizio Belpietro  

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