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L'editoriale

di Davide Giacalone
di Eleonora Crisafulli sabato 23 gennaio 2010

3' di lettura

Quanto è bello il mondo in cui i cittadini vanno a votare avendo in mente le tasse, convinti che il loro voto conti. E non si creda che quanto avvenuto nel Massachusetts sia interessante solo per chi segue la politica estera o non ha altro da fare, perché si tratta, all’opposto di un esempio concreto di ragionevolezza popolare ed elasticità istituzionale. Invidio i bostoniani, insomma, e non per le cravatte regimental, la camicia button down o il veleggiare ispirato dell’iconografia kennedyana (il presidente che, avendo qualche pensiero con la giustizia, mise suo fratello in quel ministero, che se lo viene a sapere Berlusconi …). Li invidio perché la politica americana è terribile e durissima, ma, alla fine, istituzionalmente semplice. La crescita attesa del prodotto interno lordo, per l’anno in corso, è, negli Usa, più del doppio di quella italiana. Però noi diciamo che la crisi è finita, e loro, invece, se la sentono sul collo. Ci sono settori che tirano, come sempre, ma c’è la disoccupazione che non solo è enorme, ma non accenna a diminuire. È vero che qualche settore si è ripreso, ma tende a non assumere. La crisi ha spinto la ristrutturazione, quindi la ricchezza complessiva ha ripreso a crescere, ma gli equilibri sociali interni devono assestarsi. No della sinistra Il nostro governo, quando la crisi internazionale soffiava gelida, ma da noi non si sentiva ancora freddo, ha rimandato ogni riforma strutturale, supponendo utile non spaventare i cittadini. A me sembra che debbano spaventarsi per le cose non fatte, non per quelle fatte. Ma è un altro discorso. Il nuovo presidente americano, invece, nel pieno della bufera, ha descritto e voluto un sistema sanitario che va nella direzione opposta alla fluidificazione del mercato e che, lo si giudichi positivamente o negativamente (non ne discuto, ora), aumenta la spesa pubblica, quindi le decisioni prese dallo Stato per conto dei cittadini. Aumentare la spesa senza aumentare il debito (già alto) equivale a promettere maggiori tasse. Quelli del Massachusetts hanno mangiato la foglia e, pur essendo considerati elettori fedelmente democratici, hanno votato il candidato repubblicano, che ha promesso battaglia contro la riforma sanitaria. Con il suo arrivo, i democratici perdono, al Senato, la maggioranza qualificata che blocca l’ostruzionismo. Semplice e lineare. Da noi si discute, dal 1994, di due ipotetiche aliquote, così come di diminuzione della pressione fiscale. L’ultima trovata è: tassiamo le cose e non le persone. Ma le cose sono già tassate, ovviamente, e l’idea di spostare il peso credo sia giusta, ma se ne discute da lustri, non essendo affatto una pensata delle ultime ore. Quel che manca è la sensazione che l’elettore, con la sua scheda, influisca in qualche modo. O, ancora peggio, che gli eletti, pur animati da buone intenzioni, non riescano a far nulla o, comunque, meno di quel che vorrebbero e dovrebbero. Già punito Negli Stati Uniti hanno eletto il nuovo Presidente da appena un anno, ma quello che gli chiedono non è di fare discorsi ispirati, con la voce profonda e facendo spettacolo della propria gioventù, né importa loro granché di cosa coltivi sua moglie o di cosa mangino le sue figlie, sono interessati a sapere cosa fa, ogni giorno, per la sicurezza della nazione, per la spesa pubblica, per l’occupazione e le tasse. I miti sono buoni per gli europei, dove, difatti, ci sono più obamiti che dall’altra parte dell’Atlantico, le suggestioni vanno bene per qualche settimana, gli slogan vivono una sola campagna, poi contano gli interessi, sia quelli immediati che quelli futuri. La buona politica è quella che riesce a governare i presenti propiziando i futuri. La nostra, invece, cerca di regolare quelli del passato, barcamenandosi sui presenti, senza né cambiarli né scegliere. Se i nostri elettori votassero avendo il fisco in testa, anziché le guerre civili giudiziarie, anche la spesa pubblica sarebbe meno vasta e pericolosa.

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