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L'editoriale

di Maurizio Belpietro
di Francesco Biscaro sabato 8 maggio 2010

3' di lettura

L’idea che i nostri soldi, intesi come depositi e conti correnti, siano gestiti dai politici ci dà i brividi. Per questo, come conseguenza del successo alle Regionali, quando Bossi ha rivendicato una maggior presenza di uomini del Carroccio nei consigli di amministrazione delle banche, in particolare di Intesa e Unicredit, non abbiamo gioito, pensando che non fosse una buona cosa né per gli investitori né per i clienti. Ciò detto, anche la levata di scudi che è seguita al pronunciamento leghista ci è piaciuta poco. Tutti quelli che sono intervenuti hanno infatti finto di non sapere che i politici in banca ci sono già. Il primo ad aprire le porte dei consigli di amministrazione agli emissari dei partiti fu Guido Carli, nel periodo in cui guidò la Banca d’Italia, tra il 60 e il 75. Per garantirsi vita tranquilla, da governatore accettò amministratori e presidenti di provenienza politica,chetta. La decisione non portò bene, perché condusse a decisioni dubbie dal punto di vista strategico e anche qualche crack, tipo quello del Banco di Napoli. Il nostro Bechis del resto ha raccontato come ancora oggi ci siano ben 150 consiglieri di banche che indossano o hanno indossato la divisa di un partito, quasi sempre di sinistra, e in non pochi casi siano arrivati al credito solo dopo aver perso il seggio in Parlamento. Ma c’è pure chi, non avendo mai trascorso un giorno a Montecitorio, fa politica o con la politica ha in qualche modo ache fare. Prendete Giovanni Bazoli, il presidente del consiglio di sorveglianza di Banca Intesa. Quando nel 1982 fu indicato per guidare il nuovo Ambrosiano, fu scelto più per la sua vicinanza a Beniamino Andreatta che per la sua competenza tecnica. L’allora ministro dell’Economia infatti volle a tutti i costi il docente bresciano, preferendolo a Romano Prodi, altro suo pupillo. Chi ha scarsa memoria oggi dipinge Bazoli come un tecnico al di sopra delle parti, ma ai più informati è noto che il professore è assai vicino alla sinistra, tanto da essersi speso a favore di Prodi, dispensando molti consigli quando questi stava a Palazzo Chigi. Bazoli, al quale va dato atto di aver guidato la banca con piglio deciso, in questi anni ha fortificato la sua presidenza, impedendo a chiunque di contrastarlo. In questo è stato aiutato da buoni appoggi con gli azionisti più importanti, anche quelli molto generosamente finanziati dalla stessa Intesa, tipo Roman Zaleski, l’imprenditore che lo scorso anno ha rischiato il crack e che le banche hanno dovuto sostenere. Che ci si stupisca per il solo Bossi e non per tutti gli altri che esercitano influenza sulle banche è dunque un atteggiamento un po’strabico, soprattutto se si tiene conto che il sistema è divenuto cruciale per le aziende da quando gli istituti hanno stretto i cordoni della borsa verso le piccole emedie imprese. Se è giusto che la Lega non metta le mani e soprattutto gli uomini nelle cassette di sicurezza, è altrettanto sacrosanto pretendere che i santuari bancari non siano proprietà esclusiva di unacasta chenonrisponde anessuno,senon a sé stessa. La battaglia combattuta in queste settimane intorno a Intesa e non solo dimostra come i vertici di alcune istituzioni lavorino essenzialmente per perpetuare il proprio dominio. Come detto, un Bossi banchiere non ci piace. Ma non ci piacciono neppure i banchieri che non riconoscono nessun boss. Neanche gli azionisti o il mercato. maurizio.belpietro@libero-news.it

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