Il caso

Torino, schiaffo al figlio? Condanna-choc alla madre: quanto deve pagare, le follie della giustizia

Giordano Tedoldi

Educare i figli a suon di schiaffoni è un comportamento da tutti aborrito. Se c'è ancora qualcuno così sciocco da credere che la violenza e la minaccia fisica possano essere un valido metodo per far crescere "da uomo" un bambino, si aspetti di pagarne, negli anni a venire, le conseguenze. Alzare pesantemente le mani su un bambino produce sempre un ricordo indelebile, un trauma. Ed è giusto che, in casi particolarmente gravi, dove la violenza è ripetuta e arbitraria, venga coinvolta la magistratura a tutela delle vittime. Tuttavia ci sono episodi che sollevano qualche perplessità. La corte di Cassazione di Torino ha definitivamente condannato a pagare una sanzione di 3mila euro una madre per aver commesso il reato di "abuso di mezzi di correzione" nei confronti del figlio. Nella fattispecie, in un'occasione la madre aveva dato uno schiaffo al minorenne, provocandogli alcune ferite sulle labbra, e in un'altra lo aveva spinto contro un mobile facendogli sbattere il tallone e causandogli un taglio di tre centimetri. In sé, almeno da quel che se ne deduce dai resoconti, non sembrano atti feroci. Censurabili, certamente, ma non tali da indicare una forte aggressione.

 

RUOLO DI SUPPLENZA  - Anche il contesto in cui questi fatti sono avvenuti sembra, se non giustificare, comunque spiegare il comportamento della madre. La donna, infatti, nella sua difesa, ha parlato di una difficile separazione dal padre del bambino, il quale, di conseguenza, sarebbe particolarmente turbato e irrequieto. Ribadiamo: queste circostanze non legittimano il ricorso a spinte e schiaffoni, ma non stiamo neanche parlando di una madre sadica, convinta e compiaciuta del suo malmenare il figlio. Sembra piuttosto un caso, non infrequente, di donna esasperata, incapace di gestire la rottura di un rapporto sentimentale e la responsabilità di educare un figlio senza la collaborazione e il sostegno dell'uomo da cui si è separata. Non è difficile immedesimarsi in questa madre e, piuttosto che giudicarla o punirla, tentare di comprenderla.

Ed è questo il punto delicato della vicenda: l'intervento dell'autorità giudiziaria. Si può avere la concezione più liberale e illuminata della magistratura, ma la sua funzione non è principalmente quella di capire, bensì di fare giustizia. Uno psicologo, un terapeuta, uno psicoanalista, sono certo figure molto più indicate a esaminare e dirimere un caso come quello giudicato dalla Cassazione torinese, che non le toghe.

 

Naturalmente dal punto di vista legale la sentenza sarà ineccepibile: il legislatore ha codificato un reato, tale reato è stato ravvisato in tre gradi di giudizio, e dunque la madre è condannata. Ma, forse, non si doveva arrivare in tribunale. E non solo in questo caso, ma anche in altri analoghi, sempre più alla magistratura è richiesto di sopperire - il famoso, o famigerato, ruolo di "supplenza" dei magistrati - al vuoto lasciato da altri soggetti. Il problema è che, per così dire, sembra che la magistratura, con la nostra complicità, ci abbia preso gusto, a presentarsi quale "deus ex machina" che alla fine risolve ogni specie di problemi. Ma una società dove i genitori non si parlano tra di loro, e questi non parlano con i figli, e che trasferisce tutti i propri conflitti nelle corti di giustizia, le quali, ripetiamo, non affondano mai nelle radici dei problemi né arrivano mai a capire le ragioni profonde, e più vere, di un comportamento, è una società grigia e infelice. Non è una comunità, ma una specie di istituto di correzione severo e intransigente regolato secondo un ossessivo schema di delitto e castigo.

 

ULTIMA PAROLA - Per evitare fraintendimenti, ripetiamo che questo non è un attacco alla magistratura (e forse qualche magistrato sarà stato il primo a pensare: «Ma queste cose non se le possono risolvere in famiglia? Parlandosi sinceramente?») ma all'idea, che viene da lontano - diciamo dagli anni di Tangentopoli -,secondo la quale la verità suprema, in uno stato laico, è quella dei tribunali. Non solo l'idea di "ultima parola", di "decisione incontestabile" è sempre pericolosa, ma è preoccupante anche la pretesa di voler sottoporre tutto allo scrutinio della legge, dei codici, perché se uno schiaffo è un trauma, anche una sentenza di condanna lo è. E ai traumi, quando non commessi da delinquenti incalliti, una società avanzata non dovrebbe rispondere con altri traumi, ma con uno scavo psicologico, con una riflessione, magari con un confronto aspro in cui ci si dicono cose trem