La sentenza di assoluzione per il Cav e gli altri 27 imputati nel processo Ruby ter non servirà certo a placare i pm di Milano. Gli sconfitti infatti impugneranno la decisione che hanno dovuto digerire ieri così la saga giudiziaria che da circa 12 anni ruota attorno alle presunte cene eleganti di Arcore sembrerà non finire mai, come una di quelle soap opera che inchiodano i protagonisti allo stesso copione per migliaia di puntate. Eppure, se analizziamo alcune vicende recenti di cronaca giudiziaria, ci sarebbe da ripensare al metodo con cui alcuni pubblici ministeri milanesi hanno deciso di procedere comunque nelle loro convinzioni accusatorie, nonostante l’assenza di prove e testimonianze valide. Avanti con il dito puntato contro l’ex premier descritto, nelle requisitorie pseudo-femministe, come «un vecchio malato che usava allietare le proprie serate a casa propria con gruppi di odalische, schiave sessuali a pagamento, che lo divertivano e alcune trascorrevano con lui la notte». Del caso Ruby, però, si è detto ampiamente nelle pagine precedenti.
È ancora scottante l’inchiesta flop su Eni-Nigeria, un processo che, come ha scritto Ermes Antonucci sul Foglio, non doveva neppure cominciare, ma che invece si è basato sulle dichiarazioni di un personaggio controverso e inattendibile quale il “super-teste” Vincenzo Armanna dalla cui fonte i pm del capoluogo lombardo si sono abbeverati per decretare che l’Eni (da cui Armanna era stato licenziato) era colpevole di corruzione internazionale. Ora siamo al completo ribaltamento della situazione: tutti gli imputati sono stati assolti mentre i magistrati dell’accusa sono finiti alla sbarra. Il procuratore aggiunto di Milano, Fabio De Pasquale, e il suo collega Sergio Spadaro, autori dell’inchiesta Eni-Nigeria, sono stati rinviati a giudizio dal gup di Brescia con l’accusa di rifiuto di atti d’ufficio, e cioè per aver «volontariamente» occultato – ovvero non depositato – importanti prove a favore degli imputati nel processo per la presunta corruzione italo-nigeriana.