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Mori e De Donno, la Commissione Antimafia vada fino in fondo

Daniele Capezzone
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Sono numerosi e profondi i motivi di interesse del volume di Mario Mori e Giuseppe De Donno che esce in questi giorni per le edizioni “Piemme” (La verità sul dossier mafia-appalti, con il significativo sottotitolo “Storia, contenuti, opposizioni all’indagine che avrebbe potuto cambiare l’Italia”). C’è la vicenda di due uomini oggetto per anni di durissime inchieste giudiziarie (oltre che, come vedremo, di campagne mediatiche di rara violenza). C’è una cavalcata di molti lustri nella vita pubblica italiana. Ma c’è soprattutto un nodo che potrebbe portare a un’esigenza di riscrittura integrale di un autentico turning point della storia italiana, e cioè l’anno 1992.

La chiave sta in quel dossier mafia-appalti costruito dal Ros dei Carabinieri, oggetto della straordinaria attenzione di Giovanni Falcone e poi di Paolo Borsellino. Cosa se ne ricava? In quell’anno l’attenzione era concentrata (a Nord) sull’inchiesta Mani Pulite, il cui esito è oggi chiaro: per una ragione o per l’altra, ne uscirono a pezzi le forze del pentapartito, mentre (con circoscritte eccezioni milanesi) ne risultò pressoché completamente indenne il Pci-Pds-Ds, che non a caso, a inizio 1994, si sentiva pronto a conquistare tutto il potere con la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto, fermata - come si sa - solo da un benedetto imprevisto della storia, e cioè dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi, capace di unire alla sua forza personale la trovata della costruzione di una coalizione di centrodestra.

 

 

Ma non facciamoci distrarre dal 1994 e torniamo al 1992. Perché Mani Pulite, per usare la felice espressione di Fabrizio Cicchitto, non riuscì a superare lo Stretto di Messina? La risposta più solida a questo interrogativo sta proprio nell’inchiesta mafia-appalti. È possibile ritenere che, se si fosse scavato a fondo anziché affossare l’inchiesta, sarebbe venuta fuori una connessione non episodica tra corruzione partitica, grandi imprese, cooperative (incluse quelle rosse) e poteri criminali? A lettura del libro ultimata, la risposta più probabile a questa domanda è sì.

Capite bene che la più recente storia d’Italia sarebbe stata significativamente riscritta. Primo: sarebbe stato ben difficile evocare la diversità morale della sinistra ex comunista. Secondo: settori della grande impresa italiana non avrebbero potuto raccontare a se stessi e al paese la favola dell’essere stati rapinati dal sistema dei partiti attraverso Tangentopoli. Non a caso quel dossier e la relativa indagine restano un enigma. Perché il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco telefonò a Borsellino, per affidargli l’inchiesta, all’alba della domenica in cui il magistrato fu ucciso? Non poteva vederlo il giorno dopo? E perché poi ci fu una corsa affannosa per affossare l’indagine? Perché a Giammanco, morto nel 2018, non furono chieste spiegazioni? Dalla risposta a queste domande passa un’”esigenza” che assai probabilmente molti avvertirono come impellente: criminalizzare Mori e De Donno, isolarli, costruire il grande racconto mediatico e giudiziario della “trattativa”, usare quella potente e fumosa narrazione per nascondere il resto. E tra le cose da nascondere c’era forse pure quanto era accaduto (e quanto non si volle far accadere) presso la procura di Palermo.

I lettori comprenderanno che - a questo punto - a essere messa in causa è una intera filiera giudiziaria (alcuni protagonisti sono transitati in politica, come si sa) e giornalistica, con anni di racconti televisivi a senso unico e ad altissimo tasso di suggestione. Toccherà a questi signori - se saranno in grado di farlo- smentire Mori e De Donno o discutere a viso aperto con loro. Più probabile che sperino nel gran lavacro del silenzio, della distrazione, dell’oblio: le tesi dei due autori sono troppo imbarazzanti per loro. C’è da augurarsi che la Commissione Antimafia (presso la quale sono già avvenute audizioni interessanti) non lasci cadere nel vuoto queste rivelazioni. E, su un altro piano, sarebbe molto importante se Antonio Di Pietro volesse raccontare alcune cose: è convinto che Raul Gardini si sia davvero suicidato alla vigilia dell’interrogatorio previsto a Milano o, come ha in qualche occasione lasciato intendere, quella versione dei fatti non lo persuade? E c’entra qualcosa l’indagine che ha poi segnato la vita di Mori e De Donno? E ancora: perché Mani Pulite non andò oltre lo Stretto di Messina? Sta qui la domanda delle domande. 

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