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Consulta, prima la occupano e ora fanno l'Aventino: i nomi che inchiodano la sinistra

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Fausto Carioti
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C’è un giudice costituzionale in meno, ormai da undici mesi. Il sostituto di Silvana Sciarra, il cui mandato è scaduto lo scorso novembre, non è stato eletto neanche ieri, all’ottavo scrutinio. E questo nonostante Sergio Mattarella, a luglio, avesse definito la composizione ridotta della Consulta «un vulnus alla Costituzione compiuto dal parlamento» e invitato quest’ultimo, «con garbo ma con determinazione, a eleggere subito questo giudice».

Il nulla di fatto è dovuto alla decisione di Pd, M5s, Avs, Italia Viva, Azione e +Europa di tenere tutti i loro senatori e deputati fuori dall’aula, per paura che alcuni (lo scrutinio è segreto e ne sarebbero bastati pochi) scrivessero sulla scheda il nome del professor Francesco Saverio Marini, consigliere giuridico di palazzo Chigi, che la maggioranza era pronta a candidare.

Tutto fa credere che questa situazione si protragga sino a metà dicembre, quando usciranno dal palazzo della Consulta altri tre giudici, pure loro di nomina parlamentare: il presidente Augusto Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti. In tal caso ne resterebbero in carica solo undici: il numero minimo affinché la Corte possa funzionare. E questo poche settimane prima che lì si debba decidere sull’ammissibilità dei referendum in materia di autonomia differenziata, cittadinanza facile agli immigrati e “Jobs act”: materiale politicamente incandescente. Proprio quello che il capo dello Stato aveva cercato di evitare.

 

IL NOME NON CAMBIA
Il professor Marini resta l’unico candidato della maggioranza. Il centrodestra ieri lo ha protetto: quando ha capito che i 363 voti necessari per eleggerlo (i tre quinti del parlamento) erano lontani, anche a causa degli assenti in missione (come Antonio Tajani) o per motivi di salute (Umberto Bossi), e che nessuno dell’opposizione avrebbe potuto votarlo, è stata data indicazione di non “bruciare” il suo nome e votare scheda bianca. Al termine dello scrutinio se ne sono contate 323: vista la situazione, chi aveva altri impegni - come Giorgia Meloni - non si è presentato al voto.

Prima di dicembre sono previsti altri tentativi: uno, forse due. Nessuno crede che servano a far eleggere il giudice mancante. Ma almeno – è il ragionamento che si fa a destra – in questo modo sarà smascherato il gioco del Pd e delle altre sigle di sinistra. «Oggi», commentavano ieri sera nel partito della premier, «tutti sanno perché non c’è un giudice, quando ieri la sinistra incolpava la maggioranza». Ignazio La Russa lo ha spiegato ad altri parlamentari: il fatto grave è che la sinistra abbia dato indicazione ai suoi di non andare a votare, non che Fdi abbia scritto ai propri deputati e senatori di presentarsi in aula.

A dicembre, soprattutto se i giudici da eleggere saranno quattro, un accordo con una parte dell’opposizione sarà necessario, e forse facilitato dall’abbondanza di posti su cui trattare. Al momento, però, i margini per un’intesa sono nulli. La sinistra vuole lo scontro frontale e lo dimostra con gli argomenti che usa. Secondo Elly Schlein, la presidente del consiglio sta mostrando «un atteggiamento proprietario delle istituzioni», mentre Angelo Bonelli, Nicola Fratoianni e altri sostengono che Marini è «in palese conflitto di interessi», essendo stato, nelle vesti di consigliere di palazzo Chigi, autore del testo del premierato e di altre riforme che potrebbero finire all’esame della Consulta.

 

IL DOPPIO STANDARD
Ma sono argomenti strumentali, a maggior ragione visto il pulpito da cui provengono. Nessuno, in parlamento, ha parlato di conflitto d’interessi quando Marco D’Alberti, che era stato consigliere giuridico di Mario Draghi, una volta nominato giudice costituzionale da Mattarella ha partecipato alle decisioni su alcune norme uscite da palazzo Chigi nel periodo in cui lavorava lì:è successo per un decreto sul “payback” per i dispositivi medici dell’agosto del 2022 (in quel caso è stato anche redattore della sentenza) e per alcune norme sui vaccini. Idem per Giuliano Amato, che alla Consulta giudicò normative antimafia che lui stesso aveva voluto quando era al governo.

Proprio la storia di Amato, assieme a tante altre, dimostra quale colore abbiano avuto sinora i veri «proprietari delle istituzioni». Iniziando dai tempi in cui al Quirinale c’era Oscar Luigi Scalfaro. Il giurista Giuseppe Di Federico lo ha riassunto bene in suo libro: «Tutti e nove i giudici nominati dai presidenti Scalfaro e Ciampi sono stati scelti tra persone che chiaramente appartengono all’area politica del centro-sinistra.

Quattro su nove (Contri, Flick, Gallo, Cassese) erano stati anche ministri nei governi presieduti da Ciampi e Prodi». Giorgio Napolitano nominò Amato, ex premier ulivista. Sciarra fu eletta dal parlamento perché candidata dal Pd. Proprio come Barbera, ex deputato di Pci e Pds, eletto in un “pacchetto” che comprendeva anche Modugno, indicato dai Cinque Stelle, e Prosperetti, proposto dai centristi di Angelino Alfano. Era il dicembre del 2015, il potere era solidamente in mano al Pd di Matteo Renzi, il centrodestra non ebbe voce in capitolo e tutto parve normale (almeno a loro).

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