Il 130 percento di sovraffollamento nelle carceri italiane è un segnale d’allarme. Celle pensate per due persone ne ospitano cinque, in condizioni che spesso sfiorano la disumanità. A pagarne il prezzo non sono solo i detenuti, ma l’intero sistema Paese.
Dinanzi a simile emergenza serve abbandonare gli slogan e riflessi ideologici. La destra di governo ha oggi il compito – e l’occasione – di dimostrare che rigore, umanità e sicurezza non sono termini in conflitto, ma elementi di una stessa visione strategica. Qui non è in discussione il principio della “certezza della pena”. Esso è anzi il fondamento di ogni Stato di diritto, già sostenuto nel secondo dopoguerra dalla riforma penitenziaria che pose le basi per una visione rieducativa della pena, sancita dall’art. 27 della Costituzione. Mala certezza della penava coniugata con l’efficacia della pena. Perché una condanna priva di credibilità – scontata in condizioni degradanti o inefficaci – mina la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e rafforza l’impunità, a detrimento della legalità.
La destra che da sempre coltiva il senso dello Stato sostiene il valore imprescindibile dell’ordine, della responsabilità personale e del rispetto delle regole. Ma nessuno – a destra – ha mai detto che tutto questo passi unicamente per l’inasprimento delle pene o per l’aumento dei metri quadrati di cemento in cui rinchiudere i carcerati. È uno dei tanti luoghi comuni alimentati dalla sinistra nel tentativo, spesso riuscito, di semplificare le discussioni.
In realtà, l’approccio conservatore è storicamente più sofisticato, dal momento che combina la fermezza con la funzionalità, la deterrenza con il recupero, la giustizia con la lungimiranza. Un esempio classico è la riforma penitenziaria britannica del 1829 voluta dal conservatore Robert Peel, fondatore della polizia moderna, che sosteneva il valore della riabilitazione accanto a quello della disciplina. Certo, indispensabili sono i nuovi padiglioni e un piano edilizio mirato – ed è positivo che il Consiglio dei ministri stia finalmente affrontando con serietà il tema – ma le mura da sole non bastano. Se dentro quelle mura mancano medici, educatori, psicologi e agenti adeguatamente formati, allora esse si trasformeranno in trincee dell’abbandono, non in presidi dello Stato. Restituire senso e scopo alla pena, quindi, è il vero terreno su cui misurare la maturità di una classe dirigente. La semilibertà, la detenzione domiciliare, le pene alternative per i reati minori non sono strumenti di clemenza ideologica. Sono dispositivi di efficienza penale che riducono la recidiva e rafforzano la sicurezza collettiva. Già Falcone e Borsellino, nel 1991, sottolineavano come la repressione pura non basta: serve un sistema in grado di recuperare chi può ancora essere reinserito.
Non c’è nulla di “buonista” in questo. C’è semmai la consapevolezza che prevenire un reato futuro vale quanto punirne uno passato. Bisogna spostare il dibattito dalle scorciatoie populistiche alla costruzione di un sistema penitenziario moderno, civile e sicuro. Ciò significa investire in una gestione razionale del carcere affinché smetta di essere “l’università del crimine” e alimenti invece il circuito della legalità. Il carcere è uno specchio della civiltà istituzionale di una nazione – ammoniva Winston Churchill in un discorso del 1910, quando da ministro dell’Interno promosse misure di reinserimento per i detenuti.
Guardarci dentro con onestà non è un segno di debolezza, ma un atto di forza.
E proprio la destra, che non ha complessi ideologici da difendere, può guidare questo passaggio senza rinunciare alla fermezza, ma dimostrando che la vera forza dello Stato si misura non nella punizione cieca, ma nella capacità di recuperare, rieducare, reinserire. Solo così si potrà dire che lo Stato non arre© RIPRODUZIONE RISERVATA tra, ma avanza.