Dei risultati elettorali in Calabria - dove il governatore uscente di centrodestra Roberto Occhiuto è stato confermato distanziando di quasi 16 punti il concorrente Pasquale Tridico, pentastellato campolarghista, diciamo così - vi sono aspetti istituzionali e morali non meno importanti, se non superiori a quelli politici pur rilevanti. Diversamente dalle Marche, dove il centrodestra ha vinto con la conferma, anche lì, del governatore uscente Francesco Acquaroli, in Calabria si è votato anticipatamente, di un anno, rispetto alla scadenza ordinaria. Un anticipo voluto dallo stesso governatore Occhiuto non appena in corso in indagini giudiziarie per corruzione, aperte con la solita, diabolica tempistica. Nella quale l’indagato ha avvertito non dico la volontà degli inquirenti, ai quali si è messo subito a disposizione e che ora ha sollecitato ad andare avanti col loro lavoro, ma il rischio obbiettivo di un lento logoramento. Se non di una delegittimazione di fatto. Ed ha preferito la scommessa, vincente, sulla fiducia degli elettori, che gliel’hanno ribadita in modo anche più ampio di quattro anni fa.
So bene che rischio l’accusa di essere un provocatore, con i tempi e i modi che corrono su questo versante del dibattito politico e mediatico, ma penso francamente che fra gli sconfitti in Calabria, oltre a Tridico, Giuseppe Conte e la segretaria del Pd Elly Schlein, vi sono i magistrati. Sì, anche loro. O soprattutto loro, addirittura. Che, a livello nazionale, non hanno capito che sono cambiati i tempi rispetto a quando bastava un loro starnuto, più ancora di un avviso di garanzia, per terremotare la politica e troncare carriere pur consolidate di uomini di partito e di governo, parlamentari e non.
I tempi - penserete voi - delle cosiddette mani pulite, una trentina d’anni fa, quando sotto la ghigliottina giudiziaria finì la cosiddetta prima Repubblica. E sono stati ammaccati anche passaggi delle edizioni successive: seconda, terza e quarta, visto che almeno televisivamente ci siamo arrivati. Già prima degli anni Ottanta, addirittura, per non arrivare ai piani alti della Repubblica, quando il presidente Francesco Cossiga bloccò il Csm che voleva processare a suo modo l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, al posto della Corte Costituzionale con tutte le dovute procedure, il presidente dei deputati democristiani Flaminio Piccoli si lasciò ad uno sfogo finito su tutti i giornali parlando in una riunione del comitato direttivo. Si discuteva di una rivendicazione una volta tanto solo salariale, sindacale nel vero senso della parola, dei magistrati e lui sbottò dicendo pressappoco così: attenti a dire no perché quelli ci arrestano. Dalle toghe si reclamò una smentita dell’impetuoso Piccoli mai arrivata.
La reazione elettorale, politica, ambientale dei calabresi, chiamatela come volete, al trattamento giudiziario del loro governatore potrebbe rivelarsi un antipasto del referendum atteso per l’anno prossimo sulla riforma della giustizia intestata al ministro Carlo Nordio. Una riforma, alla quale manca solo l’ultimo dei 4 passaggi parlamentari, che separa non solo le carriere dei pubblici ministeri e dei giudici, ma di fatto anche altro per i riflessi che avvertono gli stessi magistrati con la loro mobilitazione referendaria. Finiranno per separarsi davvero anche la politica e la giustizia, senza sottomettere la seconda alla prima come si vorrebbe far credere mistificando il testo della riforma. E anche le carriere dei pubblici ministeri e dei giornalisti che ne raccolgono notizie e umori alimentando i processi mediaticamente sommari. Che nella percezione del pubblico prevalgono su quelli ordinari, che seguono nei tribunali e magari si concludono con l’assoluzione degli imputati di turno. E’ una cosa che non mi sto inventando io ma che da anni lamenta l’insospettabile Luciano Violante, già magistrato, presidente della Camera e responsabile degli affari di giustizia del Pci.