Sembra una concessione, magari alla corrente alla quale appartiene e che è comunemente considerata a destra nella geografia dell’associazione nazionale delle toghe magistrati, Magistratura Indipendente, ma non lo è per niente la promessa del presidente Cesare Prodi di non politicizzare l’avversione referendaria alla riforma della giustizia targata Nordio. Dal nome del guardasigilli che se l’è volentieri intestata.
Il governo - si è impegnato Parodi parlando nel “palazzaccio” romano della Cassazione ad un’assemblea di colleghi in attività o in pensione, o semplicemente passati ad un’altra professione continuando a indossare la toga nel cuore - non sarà l’obbiettivo della campagna referendaria. Lo saranno solo la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, la correlata divisione del Consiglio Superiore della Magistratura, il sorteggio al posto delle relative elezioni spartitorie fra le correnti, l’alta Corte di giustizia introdotte dalla riforma. Come se un provvedimento di tale portata, dopo almeno una trentina d’anni di confusione, a dir poco, nella gestione della giustizia, potesse prescindere dal governo e dalla maggioranza che l’hanno concepita. E non nascosta, ma promessa agli elettori che hanno gradito facendo vincere al centrodestra le elezioni anticipate- non dimentichiamolo - di tre anni fa. La concessione - o la finta, come dicono a Roma - del presidente dell’Anm nasce dalla consapevolezza realistica, direi, della stabilità del governo in carica. Che, pur mantenendo i conti sotto controllo è riuscito a tenere e persino a migliorare la sua credibilità elettorale.
Tanto che gli aspiranti all’alternativa del campo largo ed altre diavolerie sono letteralmente disperati all’idea di una conferma del centrodestra fra due anni, in occasione del rinnovo delle Camere. Dove si sono peraltro accorti nel Pd e dintorni che perla prima volta nella storia della Repubblica potrà patire per il Quirinale nel 2029, alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella, non solo la stessa donna già arrivata per prima a Palazzo Chigi ma un Capo dello Stato dichiaratamente, orgogliosamente centrodestra. Di un centrodestra trasparente, non pasticciato, improvvisato e nascosto come ai tempi, nella prima Repubblica, di Giovanni Gronchi, Antonio Segni e Giovanni Leone. Alla cui elezione concorsero dietro le quinte parlamentari dell’allora Movimento Sociale. D’altronde, anche il capo dello Stato provvisorio Enrico De Nicola e il primo presidente Luigi Einaudi non erano certamente arrivati dalla sinistra.
La stabilità del centrodestra italiano nella situazione interna, per non parlare della situazione internazionale, nel cui contesto la Meloni è ancora più apprezzata, è un doppio handicap per i magistrati mobilitatisi contro la riforma costituzionale in arrivo. Essi sanno che, perdendo la partita, non potranno realisticamente puntare ad un recupero parlamentare come quello che nel 1988, all’epoca dell’unico governo di Ciriaco De Mita, li salvò dalla responsabilità civile derivata l’anno prima dal referendum abrogativo delle norme ordinarie che li mettevano al riparo da errori e inadempienze, volute o non.
A togliere lor signori togati dal vicolo cieco in cui erano finiti col referendum promosso da radicali e socialisti fu, nel già citato governo De Mita, un guardasigilli socialista come Giuliano Vassalli, nel silenzio imbarazzato dell’ormai ex presidente del Consiglio e compagno di partito Bettino Craxi. Silenzio imbarazzato ma non sorpreso, credo, perché Vassalli era stato tra i pochi socialisti, se non l’unico, contrario al referendum per l’introduzione della responsabilità civile. La sorpresa magari Vassalli la procurò a Craxi lasciando praticamente scrivere ai magistrati del suo Ministero la legge che restituì alle toghe una protezione forse anche superiore alla precedente. Quell’esperienza politica e legislativa oggì è irripetibile, per fortuna.