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Piercamillo Davigo, altra beffa: ri-condannato in appello

Si tratta dell’appello bis, dopo che la Cassazione aveva annullato, con rinvio a nuovo giudizio, la parte della condanna precedente che riguardava la rivelazione del segreto a terzi
di Giovanni Sallusti giovedì 30 ottobre 2025

3' di lettura

Premessa: qui cercheremo di applicare il “davighese” a Piercamillo Davigo. Il davighese è molto più di un lessico, è una visione del mondo totalizzante (aggettivo sempre in bilico sul peggiorativo “totalitario”) che si colloca più o meno all’incrocio tra Girolamo Savonarola e Louis Antoine de Saint-Just. Un incrocio che non è un punto mediano, è all’opposto l’esasperazione del moralismo frugale del frate domenicano e del giacobinismo liquidatorio del rivoluzionario inflessibile. Questa Weltanschauung davighiana ha trovato massima espressione nell’aforisma più noto del Dottor Sottile, come da soprannome affibiato all’epoca del pool Mani Pulite per sottolineare la finezza (sostenitori) o l’acrobazia (detrattori) con cui si approcciava al diritto. «Non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti».

Una sentenza a modo suo geniale, perché agisce a monte, nega qualsiasi consistenza ontologica alla nozione di innocenza, ribalta il paradigma minimo di ogni Stato di diritto, dichiarando chiaro e tondo quel che altri giustizialisti più pettinati pensano ma trovano sconveniente esternare: esiste solo la presunzione di colpevolezza. Bene, da ieri Davigo, utilizzando il canone davighiano, non solo è colpevole come tutti noi non ancora scoperti, ma è un colpevole ancora un pizzico più scoperto. La corte d’appello di Brescia ha infatti confermato la condanna a un anno e tre mesi per l’ex presidente dell’Anm, nell’ambito del processo per rivelazione di atti coperti da segreto relativi alla vicenda della cosiddetta Loggia Ungheria. Si tratta dell’appello bis, dopo che la Cassazione aveva annullato, con rinvio a nuovo giudizio, la parte della condanna precedente che riguardava la rivelazione del segreto a terzi.

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Secondo l’accusa (perdonate, noi rimaniamo testardamente affezionati alle garanzie liberali perfino per Davigo, rinunceremo a questa formula se e quando questa condanna sarà definitiva) avrebbe diffuso a una decina di persone i verbali secretati resi alla procura di Milano dall’avvocato Piero Amara, che aveva ricevuto dal pm Paolo Storari. Però, disinvolto questo Davigo in carne e ossa che fa circolare indebitamente materiale scottante, direbbe l’altro, il Davigo severo fino alla pignoleria della mitologia manettara e della rappresentazione pubblica, il fustigatore che asseriva sconsolato «In Italia ci vuole coraggio per rimanere onesti». Non sappiamo, né ci interessa, il tasso di coraggio con cui Davigo affronta le sue giornate, sappiamo che gli viene contestato di aver diffuso il suddetto materiale all’intero ufficio di presidenza del Csm di allora, ad altri sei componenti del Csm e al senatore del Movimento Cinquestelle Nicola Morra, all’epoca presidente della commissione Antimafia. Ossignora mia, ma che contaminazione malsana tra giustizia e politica, che mancanza di continenza istituzionale, che disprezzo delle procedure codificate e delle liturgie, osserverebbe qualunque commentatore allevato nell’alfabeto del davighese.

A proposito, vergherà qualcosa del genere oggi lo Scriba per eccellenza del Vangelo Giustizialista italico, Marco Travaglio? Scommettiamo qualunque cifra: no, visto che quando esplose l’affaire Loggia Ungheria sentenziò: «Davigo non deve rispondere di nulla». È sempre stata una questione di fede, per le tricoteuses del giornalismo nostrano, l’intangibilità di Davigo, qualcosa a metà tra il privilegio di casta e l’esplicito culto della personalità. «Davigo non deve rispondere di nulla», non scherziamo con i fondamentali del doppiopesismo giacobino. Pare invece che debba rispondere di parecchio, e per ora non gli stia andando benissimo. Anzi, ad ogni sentenza emessa la posizione si aggrava. D’altronde, diceva Davigo, «l’errore italiano è stato proprio quello di dire sempre: aspettiamo le sentenze». Stando a lui potevamo dirlo anche prima, che era colpevole, figuriamoci a sentenze arrivate: è davighese puro e sì, è uno spettacolare contrappasso.

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