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Cucchi, il gesto del carabiniere in tribunale di fronte a Ilaria: vale quasi più di una condanna

di Giulio Bucchi domenica 17 novembre 2019

3' di lettura

Si chiama habeas corpus ed è uno dei principi che distingue un Paese civile da una dittatura, un cittadino da uno schiavo. Se siamo sotto la custodia dello Stato, i suoi rappresentanti rispondono della nostra incolumità e non può esserci fatto nulla che non sia stabilito dalla legge. Nel caso di Stefano Cucchi, il romano di 31 anni arrestato dai carabinieri per detenzione di droga la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009, portato in una caserma dei carabinieri e morto una settimana dopo nell' ospedale Sandro Pertini, ogni cosa andò come non doveva andare.  Leggi anche: "Mai detto che mi fa schifo". Cucchi, Salvini querela il Pd La svolta - Il fatto che la sua morte sia avvenuta mentre era nelle mani dello Stato obbliga a fare giustizia, anche per non dare mangime agli idioti che scendono in piazza per insultare i caduti di Nassiriya. Lo sanno per primi i vertici dei carabinieri, i quali hanno voluto che l' Arma si costituisse parte civile. Lo ha capito uno degli imputati, il vicebrigadiere Francesco Tedesco, che un anno fa raccontò come andarono i fatti: «Fu un' azione combinata, Cucchi prima iniziò a perdere l' equilibrio per il calcio di D' Alessandro, poi ci fu la violenta spinta di Di Bernardo...». Ricostruzione decisiva per il verdetto di ieri, secondo il quale Cucchi fu pestato e ucciso proprio dagli uomini in divisa. Nel giro di poche ore sono andati a sentenza due procedimenti nati da quella vicenda. Uno riguarda i medici del reparto dell' ospedale in cui Cucchi morì, accusati di omicidio colposo: non avrebbero curato il giovane. Per loro è stato il terzo processo d' appello. Uno degli imputati, Stefania Corbi, è stata assolta «per non aver commesso il fatto». Per gli altri - il primario Aldo Fierro e i medici Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo - si è deciso il «non doversi procedere», essendo il reato prescritto. Non è finita, comunque, perché alcuni dei medici vogliono l' assoluzione piena e intendono ricorrere in Cassazione. Il processo più importante era l' altro, quello ai cinque carabinieri, anche perché si trattava della prima sentenza. Per due di loro, Alessio Di Bernardo e Raffaele D' Alessandro, accusati del pestaggio di Cucchi e quindi di omicidio preterintenzionale, la procura aveva chiesto diciotto anni di reclusione: i giudici della prima corte d' assise li hanno riconosciuti colpevoli e condannati a dodici anni. Tedesco, l' imputato-accusatore, è stato assolto dall' incriminazione di omicidio «per non avere commesso il fatto», come proposto dal pm, e condannato a due anni e mezzo per falso. Otto anni, con l' imputazione di aver falsificato i verbali dell' arresto di Cucchi, erano stati richiesti per il maresciallo Roberto Mandolini, all' epoca capo della stazione Appia, dove Cucchi fu fermato: la condanna, per lui, è stata a tre anni e otto mesi. Un quinto carabiniere, Vincenzo Nicolardi, era accusato di calunnia verso tre agenti di polizia penitenziaria (inizialmente processati per le violenze su Cucchi e poi assolti), assieme a Tedesco e Mandolini: i giudici hanno cambiato l' addebito in falsa testimonianza e prosciolto i tre da questa imputazione. Anche per i militari, è facile prevedere ricorsi in appello. L'Arma parte civile - Tra i primi a commentare c' è stato Giovanni Nistri, comandante generale dell' Arma. Ha detto che i condannati erano «venuti meno al loro dovere, disattendendo i valori fondanti dell' Istituzione», ma ha ricordato pure che ci sono 108mila carabinieri che ogni giorno s' impegnano per noi, «spesso mettendo a rischio la propria vita, come purtroppo testimoniano le cronache più recenti». La stessa Ilaria, sorella di Stefano, ha voluto ringraziare «tutti gli uomini perbene delle forze dell' ordine». Il loro sacrificio quotidiano è la cosa più importante da tenere a mente, ora che giustizia per Cucchi pare fatta e che personaggi come padre Zanotelli vanno in giro a dire che i nostri ragazzi morti a Nassiriya non meritano di essere trattati come martiri. di Fausto Carioti

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