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Il Fisco sbaglia una volta su due: nella metà dei ricorsi vince il contribuente

di Nicoletta Orlandi Posti domenica 6 luglio 2014

3' di lettura

Anche se la burocrazia non aiuta, gli avvocati costano tanto e si perde un sacco di tempo, quando il Fisco manda a chiamare un'impresa per contestargli qualcosa, conviene fare ricorso. Lo dimostrano i numeri del ministero dell’Economia pubblicati da Repubblica: solo nei primi tre mesi di quest’anno si sono conclusi con un esito completamente favorevole ai contribuenti dei contenziosi tributari per un valore di 3,6 miliardi. Una somma maggiore rispetto a quella per la quale la vittoria in tribunale è andata agli uffici dello Stato, che è di 3,5 miliardi. In pratica per oltre metà degli importi è il contribuente a vincere. 250mila ricorsi - Ovviamente quando è trascinato nella lite fiscale, l’imprenditore deve combattere con tribunali e parcelle degli avvocati per 865 giorni e per questo spesso preferisce non perdere tempo e denaro e pagare. L'anno scorso, però, sono stati presentati più di 250 mila ricorsi fiscali per un totale di 35 miliardi di tasse reclamate dallo Stato. In questo momento, le cause di natura tributaria aperte in Italia sono oltre 650 mila: un’impressionante drenaggio di risorse, di tempo e denaro dalla produzione alle dispute su conti bancari, fatture e cartelle esattoriali. I costi - Presentare un ricorso, poi, non è sia così semplice. Per fare causa allo Stato, spiega Federico Fubini, su un contenzioso fiscale fino a pochi anni fa si doveva pagare una tassa di circa 150 euro, che ora è diventata un «contributo unificato» da 4.500 euro. Non solo. Come spiega Repubblica negli ultimi anni, fin da quando Giulio Tremonti era ministro dell’Economia, le agenzie dello Stato si sono dotate di strumenti di potere assoluto. Oggi è possibile reclamare versamenti al fisco sulla base di presunzioni astratte: la Guardia di Finanza o l’Agenzia delle Entrate, a sorpresa, possono chiedere a un’azienda di giustificare tutti i movimenti bancari di molti anni prima entro due settimane e, se mancano le carte, mandare subito una cartella esattoriale. Se l’imprenditore è in regola, potrà poi vincere il contenzioso all’ultimo grado di giudizio in Cassazione: ma intanto avrà pagato, sostenuto le spese legali, e riavrà indietro il proprio danaro in media dopo dieci anni. Non sempre le regole sono simmetriche. Quando è l’ufficio pubblico a vincere la causa in tribunale, ha diritto a un terzo della somma in gioco subito, a un terzo dopo il primo grado e al saldo in appello. Al contrario, l’imprenditore inizierà ad essere rimborsato solo dopo aver vinto in Cassazione. Imprese chiuse - Infine c’è poi una norma, introdotta sotto Tremonti, che continua a provocare la chiusura di un gran numero di imprese. Lo Stato, ricorda Repubblica, può imporre un sequestro preventivo dei beni dell’impresa anche se presume l’evasione senza indizi specifici e vi aggiunge un’ipotesi di reato penale. Basta una notifica della Guardia di Finanza o dell’Agenzia delle Entrate a una Procura. In quel caso scattano i sigilli sull’azienda - l’imprenditore è già un presunto colpevole e subito le banche ritirano i finanziamenti perché mancano le garanzie. La società di conseguenza chiude i battenti, licenzia e non produce più un solo euro di tasse negli anni seguenti: un’iniziativa dello Stato che mirava a far emergere del gettito fiscale, finisce per inaridirlo e distruggere posti di lavoro.

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