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Nel caso dell'uomo "incinto", la vera vittima è il bambino

Chiara Pellegrini
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Marco, nome di fantasia, è il personaggio del momento. Si tratta del giovane trans che ha scoperto di essere incinto - eh sì, al maschile - di cinque mesi prima di poter concludere il percorso di transizione di genere, e dovrà dunque interrompere tutte le terapie in corso che dovevano trasformarlo da donna a uomo. Lo dovrò fare proprio per portare avanti la gravidanza, con tutti i rischi che ne conseguono per sé e soprattutto per il bambino.

Dopo anni di bombardamenti ormonali, consulenze psichiatriche, operazioni di mastectomia (in sostanza, la rimozione del seno), Marco era arrivato a un passo dal cambiamento tanto desiderato. Si sarebbe dovuto sottoporre tra qualche giorno a un intervento di isterectomia, cioè asportazione dell’utero. Un’operazione programmata, anticipata da prelievi sanguigni ed esami, che l’ha portato a scoprire con grande stupore e non poche preoccupazioni di essere in dolce attesa.

Ora questo giovane uomo si trova davanti a una rivoluzione copernicana, che pone la vita del feto, anzi del bimbo, al centro del sistema di orbite personali. Non solo perché, stando al sistema giuridico italiano, Marco non può più richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza, consentita in Italia nei primi novanta giorni di gestazione per motivi di salute, economici o familiari. Ma perché, legalmente, si troverà ad essere madre biologica e padre legale del bambino allo stesso tempo. Padre perché Marco per l’anagrafe non è più una donna, e madre perché di fatto darà alla luce al figlio. Un guazzabuglio giuridico su cui la giurisprudenza italiana dovrà necessariamente confrontarsi.

 

 

Ma anche una questione alquanto delicata soprattutto per il nascituro.

RISCHI PRINCIPALI - Ora i medici si stanno proprio concentrando sulla salute del piccolo. Mentre Marco in questi mesi dovrà indubbiamente lottare contro la sua ricerca di identità personale, dal punto di vista scientifico sono numerosi le incognite e i pericoli per la gestante e per il bambino. Quali siano i rischi principali lo spiega Salvo Di Grazia, medico ginecologo di Catania e autore del sito della Fnomceo (Federazione nazionale ordini dei medici, chirurghi e odontoiatri). «Premettendo che non conosco il caso specifico e che dipende ovviamente dall’epoca di gestazione, spiega Di Grazia, - in generale se la persona assume ormoni mascolinizzanti all’inizio della gravidanza, vale a dire nei primi tre mesi, i rischi sono molto elevati sia per il feto sia per la madre.

Andando più avanti con la gestazione le eventualità di patologie si attenuano, proprio perché l’embrione è già formato. In questo caso, essendo incinta di cinque mesi, e presumibilmente avendo assunto ormoni fino a poco tempo prima della scoperta, il pericolo è molto elevato. L’embrione rischia di assumere caratteri sessuali maschili rispetto al sesso originale, che magari maschile non è». Come conferma anche una pubblicazione del 2021 del Canadian Medical Association Journal sulle gravidanze degli uomini transgender, in cui si sostiene che «il testosterone ha effetti teratogeni; in particolare può causare uno sviluppo urogenitale anormale in un feto femmina. Pertanto, il testosterone non deve essere utilizzato durante il tentativo di concepimento o durante la gravidanza».

 

 

Non solo: in modelli animali, come ratti e pecore, l’esposizione al testosterone durante la gravidanza (iperandrogenemia) comporta anche un aumento del rischio di sviluppo di disfunzioni cardiovascolari e metaboliche più avanti nella vita sia per il bambino che per la madre. Marco per ora è in salute, «ma elevati livelli di testosterone- aggiunge Di Grazia - incidono anche nell’insorgere di ipertensione e gestosi gravidica, come può accadere in tutte le gravidanze».

Negli ultimi mesi Marco non aveva condotto una vita particolare, né subito violenza sessuale: aveva solamente avuto un rapporto volontario con un uomo, una relazione da cui, avendo ancora integro l’apparato riproduttore femminile, è nata appunto una gravidanza. Questo perché la terapia ormonale prevista dal percorso transizionale di fatto blocca il ciclo mestruale, ma non è un contraccettivo. La persona può continuare ad ovulare, e dunque incorrere in gestazioni. 

ABITUDINI DI VITA - Nei centri di transizione, infatti, ai pazienti vengono consigliate pillole anticoncezionali da aggiungere alla terapia ormonale. Qualcosa però non è andata per il verso giusto: Marco evidentemente non ha raccontato a dottori e terapeuti le abitudini di vita personale, oppure i medici hanno commesso qualche leggerezza e il giovane non è stato informato a sufficienza. Veniamo ai numeri. In Italia le persone transgender, complice anche un maggiore propensione al cosiddetto coming out e all’afflusso presso i centri specializzati, sono aumentate enormemente negli ultimi quarant’anni e oggi, in base agli unici dati disponibili tratti dalle persone che si rivolgono proprio ai centri per l’adeguamento di genere, si stima interessi lo 0,5-1% della popolazione generale, quindi circa 500.000 persone, contro una diffusione dello 0,002-0,005% negli anni Ottanta. Ad oggi si stima che la prevalenza dell’incongruenza di genere nelle persone “biologicamente maschie” che vogliono adeguare l’identità a quella femminile oscilli tra 1 caso su 11.900 soggetti e 1 su 45.000. Al contrario, l’incidenza delle femmine che chiedono l’adeguamento all'identità maschile varia da 1 su 30.400 a 1 su 200.000. 

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