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Giovanni Sallusti: la colpa del caporalato? Ma della Meloni, ovvio!

di Giovanni Sallusti domenica 23 giugno 2024

4' di lettura

No, io non sono colpevole. Non io come trascurabilissimo estensore di questo trascurabile pezzo, ma io come soggetto collettivo eppure sempre singolare, un io che è riferito a tutti coloro che leggono e sì, perfino a tutti gli italiani. Sono arrivati a dire che la fine insensata e blasfema di Satnam Singh (il braccio stritolato da un macchinario agricolo e l’abbandono immondo da parte di un datore di schiavitù, non di lavoro) sia colpa di tutti gli italiani, stia sulla coscienza di una nazione intera, e di ciascuno di voi, di noi. Tradendo, un’ultima volta, il disgraziato bracciante indiano, perché la sua morte scomoda concretissime responsabilità individuali, che non meritano di affogare nel sociologismo spinto e nella precotta retorica antinazionale.

Scrive (se vogliamo utilizzare questo verbo) Massimo Giannini su Repubblica: «Benvenuti nel Belpaese che va e che “cresce più della Germania e della Francia”, che “crea occupazione” e “traccia la rotta ai Grandi del mondo”. Benvenuti nel Bengodi dove lo “Stato tiranno non deve vessare le imprese” e dove “non bisogna disturbare chi vuole fare”».

Chiaro no, lo scempio metaforico di cadavere? Dalla tragedia non riscattabile del singolo (che è sempre “quel” singolo, avvertiva Sören Kierkegaard, quindi qui il tema dovrebbe essere la terribile materialità dell’assenza di Satnam) al processo antropologico a un Paese e perfino alla propaganda politica contro l’agenda “liberale” del centrodestra. Non è morto di liberalismo, il povero Singh, è morto per un impasto di residui feudali, un criminale latifondismo 5.0 unito a una premoderna assenza di diritti, ovvero per il contrario del liberalismo. Ma Giannini ha il piede a tavoletta sull’acceleratore del luogocomunismo: «Sono atti disumani, che non appartengono al popolo italiano, ha detto Giorgia Meloni. Magari fosse vera, signora Presidente del Consiglio. Quella disumanità ce l’abbiamo nell’album della nazione, da anni e anni». Non so di chi si stia permettendo di parlare, forse dei suoi vicini di terrazza all’aperitivo radical-chic, forse di quelli come lui, che da lustri plaudono all’immigrazione incontrollata e alla clandestinità come condizione esistenziale, ovvero ai principali serbatoi da cui attinge la piovra del capolarato. O forse sta davvero sostenendo la tesi intellettualmente razzista per cui ogni italiano deve rispondere, in quanto tale, di questo scempio del diritto e dell’umanità andato in scena nei campi intorno a Latina.

«Non è italianissimo lo schiavismo diffuso e profuso dalla gloriosa agricoltura tricolore?». Proprio no, forse si confonde con la pratica “diffusa e profusa” nella Cina del compagno Xi, il lavoro capovolto in schiavismo in Italia è criminalissimo, e il crimine chiama la responsabilità personale. L’unica che esista davvero, quantomeno in una società culturalmente cristiana, passabilmente liberale, ordinatamente democratica.

Quella responsabilità disinvoltamente stracciata da Valentina Petrini su La Stampa: «Siamo noi italiani ad accettare e alimentare lo sfruttamento, ed è per questo che poi a volte quelli come Satnam Singh muoiono». No, io (ancora, chi scrive, chi legge, qualunque Io non sia colui che ha gettato il braccio mozzato di Satnam in una cassetta della frutta o lo ha scaricato agonizzante davanti a casa osi riconosce in questa che la premier ha chiamato «barbarie») non accetto nulla, non alimento nulla, e prego la collega di non scrivere per me, di non pensare per me, ché sarebbe già un buon risultato lo facesse per se stessa.

Concita De Gregorio, ad esempio, ospite a Prima di Domani ha compiuto qualche decina di salti logici: «Noi siamo di fronte a un fenomeno di schiavismo di Stato». La rubrichista col sopracciò progressista sempre innescato ci sta seriamente dicendo che i comportamenti aberranti di un privato ricadono sulle strutture dello Stato, su chi amministra, su chi governa, che guardacaso oggi sta a destra? Non a caso gli utenti X non se la bevono, e sotto il post del programma fanno notare a Concita che il dramma dei braccianti esiste da lustri, soprattutto è deflagrato tremendamente sotto i governi di sinistra. Sono i rischi della propaganda travestita da buoni sentimenti. Almeno il Manifesto è andato giù piatto, con la sua prima pagina. Titolo: «Lavoro nero» (con doppio senso cromatico sul fascismo ritornato, ça va sans dire).

Sommario: «A Latina, feudo elettorale della destra, tra busti di Mussolini e fasci littori, Satman Singh è stato lasciato morire perché irregolare e sfruttato. Per Meloni e Lollobrigida è un caso isolato. Oggi sciopero e manifestazione». Fotografia: primo piano del gerarca Lollo, in un’allucinata catena della colpa e dell’ideologia. Manca solo qualcosa, o meglio qualcuno.

Manca Satman, anche se graficamente c’è, ma ridotto a figurina di giornata dell’antifascismo in assenza di fascismo, una vita peggio che cancellata, costretta in un ossimoro di cui non avrebbe saputo nulla, che non gli avrebbe detto nulla, ma che serve molto come ultima occasione per il rito abituale del weekend degli altri, dei privilegiati: la manifestazione, lo sciopero, ora e sempre Resistenza, o almeno fino all’ora di cena. Da tenersi rigorosamente in un ristorante etnico, perché gli italiani, si sa, sono tutti razzisti.

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