C’è un grande assente nella fotografia che ritrae il francese Emmanuel Macron, l’inglese Keir Starmer e il tedesco Friedrich Merz sul treno per Kiev, ed è un rappresentante della Casa Bianca: Donald Trump, o il vicepresidente J. D. Vance. La premier italiana non ha cambiato idea: è sempre convinta che senza l’intervento di Washington non sia possibile chiudere un accordo credibile tra Ucraina e Russia e non intende inviare soldati italiani in zona di guerra. Motivi per cui ieri, anziché unirsi alla trasferta, ha preferito, come altri, partecipare in videocollegamento alla riunione in cui erano presenti fisicamente quei tre leader, il premier polacco Donald Tusk e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Nessuna intenzione di togliere il sostegno italiano a Zelensky, anzi. Giorgia Meloni è d’accordo con gli altri nel ritenere urgente il raggiungimento di un cessate il fuoco «totale e incondizionato di trenta giorni» e chiede che la Russia «risponda positivamente all’appello fatto dal presidente Trump e dimostri concretamente, come già fatto dall’Ucraina, la volontà di costruire la pace». Conferma, però, che il rapporto con Washington è decisivo per le sorti dell’Ucraina. Soprattutto, i leader europei che ieri si sono presentati a Kiev sono uniti dalla proposta di inviare truppe in Ucraina anche al di fuori di una missione Onu o di peacekeeping, e la premier italiana non ha alcuna intenzione di seguirli su questa strada.
Per l’Ucraina propone garanzie di sicurezza che giudica più solide e meno azzardate, sul modello dell’articolo 5 del trattato Nato (per il quale un attacco armato contro una nazione aderente al patto, in Europa o nell’America settentrionale, «sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti»). Forme di protezione che potrebbero essere concesse anche senza fare entrare Kiev nell’Alleanza atlantica. Una presenza ieri nella capitale ucraina, insomma, non sarebbe stata coerente con la linea che Meloni condivide con gli altri leader della maggioranza e ha illustrato più volte: «Nessuna partecipazione nazionale a una eventuale forza militare sul terreno». Anche per questo non si dà peso agli attacchi lanciati dal Pd e dai Cinque Stelle, che ieri hanno contestato l’assenza di Meloni a Kiev: sono i partiti che si oppongono persino agli aiuti militari all’Ucraina, le loro accuse non sono giudicate credibili.
Dopo il colloquio a quattr’occhi tra Trump e Zelensky all’interno della basilica di San Pietro, Roma resta quindi il crocevia della diplomazia, per ciò che sta accadendo in Vaticano e per il rapporto speciale che lega la premier al presidente statunitense. Già tra sette giorni la città accoglierà di nuovo i leader mondiali: all’intronizzazione di Bergoglio erano presenti rappresentanti di 132 Paesi, inclusi l’allora vicepresidente Joe Biden e la cancelliera Angela Merkel, e ora se ne attende un numero simile. E, a differenza dei funerali di Francesco, stavolta non ci saranno questioni di opportunità che inducano la premier a non avere colloqui politici ufficiali con uno o più leader contemporaneamente. A ridosso di quel rito solenne che segnerà l’inizio del ministero petrino di Robert Francis Prevost, o comunque nel giro di poche settimane, sulla sponda opposta del Tevere si terrà l’incontro tra Meloni e il cancelliere Merz, da poco entrato in carica. Prima di lui è atteso il premier greco Kyriakos Mitsotakis, che sarà nella capitale italiana domani. È stato rimandato, invece, l’incontro col primo ministro slovacco Robert Fico, che nei giorni scorsi ha visitato Vladimir Putin a Mosca: il suo arrivo a Roma, previsto per martedì prossimo, è stato spostato al 3 giugno.